Conformità e alterità: chi siamo davvero?

“Identità” è una parola che contiene in sé sia il principio di conformità (due cose identiche si corrispondono perfettamente, sono uguali) sia il principio di alterità (ciò che caratterizza la mia identità, mi distingue da chiunque altro).
Fare i conti con chi si è in Sardegna è complesso: non sempre è una questione pacificata, anzi, spesso genera conflitti e rigetto, indifferenza, presa di coscienza, oppure ancora un senso di orgoglio non ben definito. Uno dei problemi è che spesso si confonde l’identità (linguistica, storica, culturale) con l’identificarsi in tutto ciò che rende la Sardegna speciale, caratteristica (l’amore per le bellezze della propria terra e una lunga serie di stereotipi e luoghi comuni).

In Sardegna, ci sono persone che si dicono sarde, ma anche italiane. Alcune si considerano italiane, ma anche sarde; altre soltanto sarde; altre ancora solo italiane.
È come se ci fossero due poli: la sardità e l’italianità e in mezzo uno spettro di sfumature. Noi persone sarde oscilliamo tra quei due poli, la nostra posizione cambia nel tempo: il punto dello spettro in cui ci si colloca definisce la rappresentazione del sé, e anche il rapporto con il confine, con il “fuori”. Un confine che a volte è margine, a volte frontiera, a volte un punto d’incontro, altre volte ferita. 
È una relazione complessa quella col retroterra culturale e con il “fuori”: è condizionata da dinamiche storiche, antropologiche, sociali delle quali non sempre si è consapevoli. 

Storie personali, sfide globali

Nel sistema in cui si svolgono le nostre vite, ci sono una cultura globale, una cultura dominante e pervasiva (quella italiana) e una – tante a dire il vero! – culture locali.
Tra le persone sarde e la cultura autoctona c’è un diaframma il cui spessore varia a seconda del contesto in cui si vive e ci si forma. Non è raro crescere in Sardegna e conoscerla poco: molte di noi sono state alfabetizzate solo come italiane e quindi il grado di consapevolezza di appartenere a un contesto caratterizzato non è omogeneo nella popolazione. 
Siamo sarde, ma anche italiane.
Quel “ma” nasconde un mondo, talvolta un conflitto, un conflitto fisiologico, forse anche necessario, spesso doloroso. Affrontarlo non è cosa da poco: significa mettere in discussione i processi interiori attraverso cui si negoziano le proprie scelte, sia che in Sardegna si scelga di restarci, sia che dalla Sardegna si decida di andare via.

È comprensibile che alcune persone si rifiutino di farlo perché l’italianità è un paradigma, è l’impostazione culturale che molte persone sarde assimilano sin dalla nascita, attraverso la lingua, la socializzazione, l’educazione familiare, la scuola e i media. Si potrebbe dire che è una visione del mondo; il modo in cui si legge la realtà. In Sardegna è normalizzato che non si studi la lingua autoctona e che sulla conoscenza del contesto in cui si vive prevalga quella della storia e della cultura italiana, secondo una gerarchizzazione che di fatto sancisce la subalternità di quella sarda. Vedere questo come qualcosa che normale non è, ma che anzi, lede i diritti delle persone sarde ed è frutto di decisioni che qualcuno ha preso al posto loro, impedendo i processi di autodeterminazione, non può che minare le fondamenta di quel paradigma.
Soffermarsi a riflettere su questi temi implica intraprendere un’analisi critica di tutto quello che si è appreso, interiorizzato, vissuto. Significa sfidare il proprio sistema di convinzioni attraverso un percorso di decostruzione profonda che riguarda la propria identità e il proprio senso d’appartenenza.

Il fatto di provare fastidio, rigetto e diffidenza verso le situazioni e le persone che parlano di questi temi è un meccanismo di autodifesa dal dolore e dal senso di smarrimento che si provano davanti a quella che, quando riguarda un altro popolo, nessuno ha difficoltà a definire un’ingiustizia. L’impedimento a imparare a pensare il proprio mondo nella propria lingua è -appunto- un’ingiustizia che ne genera altre: l’italianità è qualcosa di profondamente radicato e apparentemente naturale, ma in realtà è un processo di acculturazione portato avanti da un sistema estremamente efficace e pervasivo e non una scelta libera e consapevole.

Il dentro e il fuori tra conflitti e bisogno di integrazione

Viviamo in un contesto in cui si è consolidata l’opposizione tra un “fuori”, un centro, che è dove abbiamo l’impressione che succedano le cose importanti, a cui si guarda con speranza e desiderio di integrazione e di emancipazione, e una “periferia”, un margine, un limite in cui non ci si riconosce, che finisce per rappresentare tutto ciò da cui ci si vuole allontanare
Esistono ragioni storiche dietro alla polarizzazione tra centro e periferia, tra Nord e Sud (non è un caso che nell’ambito della questione Meridionale non si sappia dove collocare la Sardegna). Ci sono ragioni culturali alla base della svalutazione di tutto ciò che è legato alle culture associate alle “periferie”. Spiegare la diversità ovvero la non corrispondenza al modello sviluppo associato ad uno standard di progresso, con la contrapposizione di categorie oggettive come avanzamento/arretratezza; civiltà/barbarie; evoluzione/sottosviluppo; emancipazione/asservimento è una prassi consolidata.

Come possiamo liberarci di quello sguardo svalutante se non ne conosciamo la matrice?

Siamo sardi, ma anche italiani.
Quel “ma” può diventare la scommessa su un sapere che a volte non si sa di avere, ma che, in qualche misura, si possiede già, anche a livello inconscio. Non è un caso che molte persone sarde si accorgano di chi sono quando vanno a vivere all’estero (Italia compresa): una volta che si trovano ”fuori”, anche se in un posto dove pensano di essere già integrate, si scoprono per il principio di alterità. Si rendono conto che non sono conformi perfettamente alla cultura dominante. Perché il loro contesto di origine le ha, anche a livello inconscio, formate. 

Verso un mondo policentrico: una sfida collettiva

C’è chi rafforza il rigetto della propria cultura d’origine e chi entra in conflitto con quella in cui si trova. C’è chi cerca strumenti per ricostruirsi, per fare riappropriazione e chi va nella direzione opposta. È proprio quel senso di smarrimento, dato dal non avere elementi certi che consentano di ri-conoscersi, che fa dell’esperienza della definizione identitaria un’esperienza collettiva, nel senso che, pur nella diversità del percorso individuale, riguarda tutte le persone sarde. Tutte noi (dentro o fuori dalla Sardegna) prima o poi dobbiamo fare i conti con i processi identitari e le loro implicazioni: tutti ne sperimentiamo la fatica.
Recuperare la dimensione comunitaria offre la possibilità di ri-pensarci e ri-guardare i luoghi, sia nel senso di prendersene cura che del ri-tornare a guardarli, per parafrasare Franco Cassano. Non solo: consente di essere protagoniste e protagonisti di una rivoluzione culturale basata sull’idea di un mondo policentrico, sul superamento dell’idea del modello unico di progresso.
Solo così potremo avere una “casa” a cui appartenere, uno spazio non fisico, ma relazionale da abitare, e uno scopo comune: non che tutti ritornino, ma che tutti siano liberi di scegliere consapevolmente.

Capire chi siamo, non solo come individui, ma come comunità, è fondamentale per immaginarsi un futuro, dovunque scegliamo di essere.

Consiglio, come approfondimento, la lettura di questo articolo di Alessandro Cuccu su S’Indipendente.
Qui trovi invece un mio articolo sul perché ho deciso di occuparmi di tematiche come queste.

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Una risposta a “Essere sardə in Sardegna, nel Mediterraneo, in Europa, nel mondo”

  1. […] anche se questa non viene esercitata in modo esplicito o eclatante. Incide profondamente sull’identità delle persone, può essere traumatica e dolorosa.Intraprendere un percorso di riappropriazione […]

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