Dal 28 novembre 2025 si trova in tutte le librerie questo prezioso libro di Francesca Pili. La sua proposta di scrivere una delle prefazioni mi ha reso felice e orgogliosa di poter dare il mio contributo a questo suo lavoro. Un lavoro necessario e condotto con rigore e chiarezza. Ogni parola è pesata, scelta, mai banale.
Ho pensato di parlarne anche qui sul mio blog, permettendomi una deviazione che è tale solo in apparenza, giacché questo non è altro che un contenitore di idee, teorie, metodi transfemministi e decoloniali, applicati alla Sardegna. E non troppo tempo fa ho parlato del film “La vita va così” di Riccardo Milani proprio per provare a evidenziare l’importanza di saper passare dall’immedesimazione alla postura critica.
Non sono mai “solo film”. Il cinema non solo rappresenta il mondo, ma forma il nostro immaginario e lo struttura attraverso dinamiche di percezione e potere.
Un itinerario geografico e politico attraverso il cinema
Parlare di intersezionalità e cinema implica la presa di coscienza del fatto che il nostro sguardo è politico.
È un atto trasformativo.
Questo libro mi ha immediatamente fatto pensare a un saggio di bell hooks, femminista, scrittrice, attivista e docente, intitolato Uno sguardo oppositivo: la spettatrice nera. In esso hooks riflette sul rapporto tra spettatrici nere e cinema, su come lo sguardo di chi fruisce di un prodotto cinematografico rappresenti una possibilità di resistenza al potere.
Come spiega Pili, le diverse forme di discriminazione e di oppressione sono interconnesse: si nutrono e si sostengono le une con le altre. La risposta a questo sistema non può dunque che essere collegare le lotte tra loro, portarle avanti in modo intersezionale.
Affinché questa parola non venga svuotata di senso, serve ricordare che l’intersezionalità non è una collezione né una classifica di battaglie, bensì la capacità di osservare le stratificazioni del sistema privilegi/oppressioni per autocollocarsi al suo interno.
Non esiste un ambito delle nostre vite che non rispecchi tale sistema: la teoria cinematografica descrive il cinema come costruttore attivo dello sguardo.
Francesca Pili definisce un itinerario attraverso un ampio arco spaziale e temporale, scegliendo opere che rappresentano diverse epoche, contesti socio-politici e aree geografiche. Prende in esame film prodotti non solo in Europa. È importantissimo sottolineare che la prospettiva non è eurocentrica, ma da parte dell’autrice c’è la volontà di decostruirla ed uscirne, spaziando dall’India al Sud America per offrire una visione autenticamente internazionale, coerentemente con l’approccio intersezionale.
Il libro consta di una sezione dedicata alla Palestina, perché – scrive Pili – non può esistere liberazione senza la liberazione della Palestina. Non si può parlare di intersezionalità senza includere la causa del popolo palestinese.
Quello che l’autrice fa in questo libro, è, dunque, ricordarci che non c’è potere solo nel rappresentare, ma anche nel guardare.
Il dominio, infatti, riproduce se stesso in contesti differenti, usando strategie di controllo diverse: le immagini sono un veicolo potentissimo, ed educarsi a individuare i meccanismi di potere che veicolano significa sottrarsi al consumo passivo del prodotto cinematografico.
In Black British Cinema, Spectatorship and Identity Formation in Territories, Manthia Diawara definisce il potere di chi guarda: “Ogni narrazione mette lo spettatore in una posizione attiva; e razza, classe e relazioni sessuali influenzano il modo in cui questa soggettivazione viene riempita dallo spettatore”.
Immedesimarsi è scontato?
Esistono tanti livelli di lettura di qualsiasi prodotto culturale. Uno è quello dell’immedesimazione emotiva, individuale. Soggettiva. Questa categoria non è discutibile, nel senso che ciascuna di noi è libera di rispecchiarsi, di distinguersi, di riconoscersi.
C’è poi il gusto personale: anche in questo caso c’è poco da obiettare. Quando ci si muove su questo piano non ci sono interpretazioni giuste, sbagliate, a fuoco o non a fuoco.
In tale complessa stratificazione si inserisce la capacità di distaccarsi, e rapportare ciò che vediamo al cinema con il nostro vivere in società.
Nel suo Intersezionalità al cinema, Francesca Pili ha fatto un lavoro di selezione e analisi per nominare le intersezioni tra discriminazioni, mettendo in luce aspetti che la critica cinematografica non è avvezza a portare alla luce. Passa in rassegna film più o meno recenti, più o meno noti.
Scrive infatti: “È evidente dal numero dei film che ho analizzato in questo libro che quelli che trattano il tema dell’intersezionalità sono ancora molto pochi, troppo pochi. Si può e si deve fare di più; nondimeno è assai importante che ce ne siano, perché è un punto di partenza”.
E io sono convinta che questo sia davvero un punto di svolta: non limitarsi solamente a ragionare su ciò che vediamo rappresentato, ma anche resistere alla completa identificazione con il discorso filmico – per riprendere Manthia Diawara.
Come persone consumatrici di film, siamo abituate alle categorizzazioni. Siamo abituate ai film che parlano di razzismo, di diritti delle persone appartenenti a categorie marginalizzate, di emancipazione femminile, e così via. A individuare come le discriminazioni si leghino e si amplifichino a vicenda, lo siamo molto meno.

Diventare spettatrici esigenti
Questo libro politicizza le relazioni di sguardo, insegnandoci a osservare per resistere. È uno strumento per diventare spettatrici esigenti, per rivendicare la libertà di rigettare il modo in cui il margine che occupiamo – con i nostri corpi, le nostre lingue autoctone, le nostre culture minoritarie – viene rappresentato.
La cultura dominante, lo sguardo patriarcale, l’occupazione simbolica possono manipolare il modo in cui vediamo la realtà, ma questo non significa che non possiamo acquisire una consapevolezza nuova.
Ci sono pochi film che adottano una prospettiva multidimensionale come metodo per svelare il reale, è vero: abbiamo anche poca teoria e poche pratiche di visione intersezionali. Ecco perché questo libro è necessario. Creare spazi critici dove mettere in discussione i linguaggi e le scelte di rappresentazione serve anche a educare chi produce opere cinematografiche, suggerendo che occorrerebbe superare la settorialità.
Ogni contributo alla teoria transfemminista del cinema permette di far emergere una pratica discorsiva che sposti le considerazioni sulla problematizzazione di ciò che un film trasmette, dalla dimensione privata al dibattito pubblico.
Il contesto in cui viviamo è plasmato dalle oppressioni di classe, razza e genere: esse permeano ogni aspetto della nostra vita, e sono pervasive perché il capitalismo ne fa prodotti di consumo, a maggior ragione se parliamo di cinema.
È soltanto attraverso le letture, la critica e la lotta che le soggettività possono posizionarsi entro il sistema oppressione-privilegi. Fare un viaggio tra questi film, farsi guidare alla scoperta di ciò a cui non avevamo fatto caso, fa emergere le grandi potenzialità di una “teoria dello sguardo” in cui il piacere visivo si accompagna a quello dell’analisi critica.
Certo, può essere un carico mentale in più.
Guardare, leggere, pensare con la lente dell’intersezionalità non lascia scampo: ciò che prima avremmo apprezzato, a un certo punto lo rigettiamo perché ne riconosciamo la problematicità. E quindi qualcunə potrebbe chiedersi se non ciò non finisca per guastare l’idea del cinema come intrattenimento.
Pur comprendendo questo punto di vista, penso che più il nostro sguardo è consapevole, più saremo in grado di conciliarlo con il godimento dell’esperienza cinematografica. Semplicemente crescerà il ventaglio di elementi su cui fondare la nostra opinione.
In un tempo in cui tutto sembra ridursi a prodotto di consumo, questo libro ci ricorda che anche lo sguardo, il nostro, può essere rivoluzionario.
Ogni sguardo consapevole è un atto di resistenza.
Nessun cambiamento può accadere nella realtà, senza prima avere luogo nella nostra immaginazione.

L’autrice, Francesca Pili
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
bell hooks, Maria Nadotti “Elogio del Margine / Scrivere al buio”
Manthia Diawara, “Black British Cinema, Spectatorship and Identity Formation in Territories”
Laura Mulvey, “Visual Pleasure and Narrative Cinema”


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