Le persone sarde possono dirsi diverse in quanto tali? E soprattutto: chi lo decide?
In questo articolo analizzo il conflitto dialettico che si innesca quando qualche persona sarda rivendica il suo essere diversa in quanto appartenente a un contesto fortemente connotato per lingua, cultura e storia.
Diversa rispetto a chi? Di solito le persone non italiane non hanno difficoltà a comprendere le ragioni per cui la Sardegna è altro rispetto all’Italia.
Decolonizzare lo sguardo sull’Isola e i suoi abitanti sarebbe utile per evitare di mettere in atto comportamenti discriminatori, anche senza averne l’intenzione.

La rivendicazione delle persone sarde della propria identità secondo il principio dell’alterità suscita talvolta atteggiamenti contrastanti: rigetto, ridicolizzazione, fastidio.
Sono soprattutto gli italiani a rifiutarsi di legittimare l’esistenza di istanze critiche e identitarie, specie se mirano all’emancipazione e all’autodeterminazione, tendendo a ridurle a un separatismo “sterile”, volto alla chiusura, al ripiegamento su di sé, al complottismo, al vittimismo.
Affermare che l’italianizzazione non sia un fenomeno ineluttabile, immune da critica o irreversibile, sembra inaccettabile. Un reato di lesa maestà, una sorta di tradimento, o una discriminazione al contrario. Giova ricordare che quest’ultima non esiste in quanto richiederebbe il controllo dei sistemi di potere al punto da invertirli. In un quadro di disparità, la discriminazione è agita da parte del gruppo dominante verso quello subalterno. È una dinamica verticale, non orizzontale perché i rapporti non sono alla pari.
Anche se può sembrare che non sia così, negare il diritto di advocacy, ovvero la difesa o promozione di una causa da parte delle persone facenti parte di un gruppo minorizzato, è una forma di discriminazione che può esprimersi attraverso microaggressioni.
Il termine microaggressione indica atti o comportamenti leggeri (che non significa poco gravi o privi di conseguenze) di discriminazione, di solito involontari contro una minoranza, un gruppo marginalizzato, un individuo in particolare.
Minorizzato, traduzione dall’inglese minoritized, è una parola che evidenzia il modo in cui i gruppi egemoni possono assegnare lo status di minoranza ad altri non dominanti, anche quando non rappresentano una minoranza numerica.
Le definizioni di minorizzato e microaggressione vengono da “Scrivi e lascia vivere”, un testo uscito nel 2022, scritto da Alice Orrù (ciao, Alice, per sempre grazie), Valentina Di Michele e Andrea Fiacchi.
Pocos, locos y mal unidos – Noi sardi siamo troppo pochi
“I sardi sono pochi”: è duro a morire lo stereotipo legato alla…
“…Definizione dei sardi data nel XVI secolo da Antonio Parragues de Castillejo, arcivescovo di Cagliari: “pocos, locos y mal unidos“. Senza indugiare in analisi filologiche sulla (dubbia) autenticità di questa massima, essa è ormai, da una trentina d’anni, un costrutto ideologico largamente interiorizzato dai più, come tale ottimo per fondare un’intera rappresentazione della realtà”. – Omar Onnis, storico
Tale stereotipo si intreccia con quello che relega i “piccoli stati” a posizioni poco rilevanti, o legittima il loro inglobamento indebito da parte di altri, in virtù della convinzione -fallace- che l’unica condizione per far parte di un “mondo globale e globalizzato” sia confluire in una realtà statale più grande.
O che riconoscersi come una entità culturale con una propria e distinta identità, significhi frammentarietà e impedisca di sentirsi “cittadini del mondo”.
Sono davvero le persone sarde a ritenersi, senza un vero motivo, minorizzate e discriminate? – Non sarà un’esagerazione?
La minorizzazione della Sardegna non è un’invenzione di stampo vittimistico del popolo sardo.
Può essere riferita, ad esempio, alla condizione di lingua minoritaria del sardo la quale è sancita formalmente dalla legge italiana.
Tuttavia, è proprio la percezione della Sardegna come isolata e periferica, quale mera emanazione della cultura italiana, a renderla una realtà marginalizzata.
La Sardegna è periferia per eccellenza di un centro collocato nel continente. Tale perifericità si rintraccia per esempio nel riconoscimento dell’insularità quale condizione che causa “svantaggi strutturali”.
Verrebbe da pensare che il solo fatto di nascere in un’isola porti con sé degli effetti collaterali, e che certi problemi della Sardegna (difficoltà negli spostamenti, spopolamento, povertà, meno opportunità ecc) siano riconducibili a questo.
Ciò invisibilizza le responsabilità istituzionali e le disparità sistemiche.
Infatti la storia delle altre Isole maggiori del Mediterraneo, non italiane, sembra smentire questa narrazione.
Scrive lo studioso Cristiano Sabino:
“Nell’arco temporale che va dal 2000 al 2020 la popolazione sarda ha perso circa 30mila abitanti, mentre la Corsica passa dai circa 263mila ai 399mila, le Baleari da 830 mila a superare il milione e duecentomila, Malta (che è uno stato indipendente con una superficie di appena 316 km quadrati rispetto ai 24100 della Sardegna) ha incrementato la sua popolazione di circa 100mila unità.”

fonte immagine Kalaritana Media
Da questi pochi elementi emerge già quanto la minorizzazione della Sardegna sia un processo più esterno che interno.
Come si spiega?
L’Italia è uno stato-nazione di recente costituzione, nato da un’azione militare non accompagnata da un sentimento di appartenenza da parte della popolazione, essendo il territorio molto eterogeneo dal punto di vista sociale, culturale e linguistico.
Da anni la letteratura meridionalista revisionista propone una rilettura del Risorgimento italiano secondo una prospettiva che riveli come l’Unità abbia plasmato la società meridionale e delle Isole in termini di sfruttamento economico e fiscale.
L’Italia è il paese dell’Europa occidentale che presenta il più alto livello di squilibrio socio-economico territoriale. Su questa situazione si è basata l’analisi di Antonio Gramsci sullo sfruttamento di alcune regioni (il Sud e le isole) da parte di altre (il Nord).
Per comprenderla, oggi, è necessario tuttavia estendere il discorso ad ambiti diversi da quello economico. Prendendo in considerazione, cioè, tutti i processi di dominio che vanno dalla discriminazione razziale al disciplinamento sociale e culturale delle popolazioni svantaggiate. (La civilizzazione e il riconoscimento che passano attraverso l’integrazione linguistica, ma anche la presa di distanza da ciò che è tradizione intesa come sinonimo di qualcosa da superare perché arretrata).
I movimenti autonomisti e indipendentisti europei e internazionali fondano le loro rivendicazioni su due argomentazioni principali. Dal versante economico, regioni come la Sardegna, attribuiscono la propria condizione di subalternità e di sottosviluppo allo sfruttamento delle risorse locali da parte dello Stato centrale, che le ridistribuisce a vantaggio di altre aree territoriali. Sul piano culturale e linguistico, questi gruppi denunciano discriminazioni derivanti dal processo di nation-building, che ha imposto modelli culturali e linguistici estranei alle popolazioni periferiche, relegando le loro lingue e culture a una posizione subordinata rispetto a quella nazionale dominante.
Per la studiosa Gayatri Chakravorty Spivak, che riprende le teorie di Antonio Gramsci, “subalterno” indica il soggetto escluso dall’accesso al potere e al suo controllo; ləi dispone degli strumenti cognitivi che il dominante ha predisposto, cosicché non solo non protesterà per la sua condizione, ma ne diventerà complice involontario.
Quando c’è una presa di coscienza collettiva, le soggettività subalterne si (ri)appropriano di definizioni come minorizzazione, margine, periferia, eccetera, nelle lotte per la difesa dei propri diritti.
La studiosa bell hooks parla del margine come un luogo di privazione, ma anche spazio di resistenza, dando un significato nuovo al contributo delle donne facenti parte della minoranza, nello sviluppare e mettere in atto strategie di adattamento che hanno consentito di non cedere ai processi di rimozione della memoria linguistica e culturale.
La svalutazione delle istanze di carattere emancipativo sarde è indice dell’assenza, in Italia soprattutto, di un atteggiamento critico.
Manca l’apertura alla messa in discussione dei processi di nation building; non c’è la volontà di riconoscere la problematicità di fenomeni come il centralismo, la gerarchizzazione, lo sfruttamento, ma anche la narrazione dominante.
E in generale c’è una resistenza piuttosto scomposta alla critica di costrutti come nazione, globalizzazione, capitalismo, binarismo di genere, i quali vengono assunti e dati per universali e univoci, senza lasciare spazio a forme alternative dello stare insieme, dell’esistere, dell’espressione di sé.
La violenza epistemica. EpisteCHE?
In Sardegna, la cultura dominante, al momento, è quella italiana, che gode di privilegi di sovrarappresentazione in ogni ambito della società.
Difficilmente la Sardegna viene intesa al di fuori dalla relazione subordinata con l’Italia, attraverso categorie opposte non oggettive come periferia/centro; sottosviluppo/sviluppo; arretratezza/progresso, eccetera. Più spesso semplicemente ci si limita a negare la diversità della Sardegna.
Il rapporto tra cultura dominante e subordinata può essere analizzato anche indicando l’introiezione, da parte della popolazione minorizzata, dei modelli culturali, della lingua e degli usi della cultura dominante, associati al “progresso”.
L’italianizzazione avviene anche e soprattutto tramite la stigmatizzazione delle parlate autoctone e l’esclusione progressiva della cultura locale da ogni contesto, a partire dalla scuola.
L’associazione di tutto ciò che locale a un “retaggio culturale” arretrato e lo stigma verso la cultura indigena si accompagnano alla razzializzazione.
Se da un lato è vero che il discorso sulla razzializzazione delle popolazioni del Meridione e della Sardegna rischia di cancellare il privilegio bianco e di cittadinanza, è anche vero che il risultato delle riflessioni in merito non può essere il silenziamento delle loro istanze.
La letteratura sull’argomento dimostra che ai sardi sono stati attribuiti stereotipi negativo legati alla loro natura selvaggia e violenta, salvo essere definiti “feroci e coraggiosi” al servizio dell’Italia ai tempi della Brigata Sassari, ad esempio.
I modelli culturali egemoni non si limitano a non rappresentare le minoranze, ma tolgono loro gli strumenti per parlare della propria esperienza.
Condizionano la psicologia degli individui, con modalità subliminali, insensibili e invisibili per le stesse vittime che la subiscono: «si esercita attraverso le vie puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza» (Bourdieu, 1998). Rachele Borghi parla di colonialità del potere, dell’essere e del sapere.
Tutto questo ragionamento può essere utile a comprendere i concetti di violenza simbolica e violenza epistemica, elaborati negli studi post coloniali e transfemministi per dare voce a chi voce non ha, o non può avere, cioè le soggettività minorizzate.
L’accusa di avere manie di complottismo – Eh ma non c’è bisogno di inventarsi teorie cospirazioniste

Il condizionamento psicologico da parte della cultura egemone non è il risultato di una “cospirazione pedagogica” dei dominati, ma è strutturale e opera entro un insieme di “saperi” condivisi da entrambi gruppi. Lo stigma innesca la vergogna di sé, che può produrre autorazzismo. Essere cresciuti in un contesto esclusivamente italofono, con una conoscenza scarsa della storia e della geografia della Sardegna è un’esperienza di alienzione culturale che ha effetti reali nelle vite delle persone.
Ad esempio ostacola il dialogo intergenerazionale e la trasmissione di saperi, pratiche, memorie e conoscenze: può intaccare i legami affettivi e la relazione che le persone sarde hanno coi luoghi.
La violenza simbolica produce anche forme di autorappresentazione dei subalterni che giustificano la dipendenza economica, ma non solo (i sardi non sanno fare impresa, sono disuniti e invidiosi, hanno una mentalità arretrata eccetera.)
Le ragioni politiche, storiche, economiche che spiegherebbero problemi sistemici e strutturali della Sardegna sono invisibilizzate o sostituite da una narrazione colpevolizzante, paternalistica oppure di carattere essenzialista.
L’essenzialismo si realizza in una visione statica, data per storia o -peggio ancora- per genetica dell’identità e può essere messo in atto come forma di autodifesa.
La privazione della libertà di crescere in un contesto bilingue e di parità culturale è una forma di violenza, anche se questa non viene esercitata in modo esplicito o eclatante. Incide profondamente sull’identità delle persone, può essere traumatica e dolorosa.
Intraprendere un percorso di riappropriazione linguistica e culturale, specie se da persone adulte, non è facile, richiede molto tempo ed energie e un profondo lavoro di decostruzione degli autopregiudizi e degli stereotipi che si è abituate a incarnare come parte del proprio essere.
Non riconoscere questo aspetto è un atteggiamento discriminatorio.
Non si può più dire niente
Il fatto è che le questioni identitarie non sono argomenti su cui, da esterni (cioè da persone non facenti parte della comunità che si dichiara discriminata o che ne fanno parte, ma non si riconoscono nelle stesse istanze per mancanza di necessità o interesse -ogni scelta è valida) si può esprimere un’opinione…
- senza sospensione del giudizio; (ascolto umile)
- senza conoscere l’impianto teorico su cui poggiano le argomentazioni della persona interlocutrice (non averne mai sentito parlare non comporta che non esista, sia un’invenzione, o che sia possibile dire che ciò che ci viene detto sia sbagliato perché si sta “esprimendo un parere);
- senza avere un punto di vista interno;
- senza tenere conto della sensibilità che richiede trattare i temi legati alla definizione del sé dal punto di vista etnico, sociale, di genere, classe o identitario
Non riconoscere l’esistenza della gerarchizzazione tra culture non significa che questa non sia reale: sminuire o invalidare i discorsi sulla minorizzazione, veicolati da chi fa parte del gruppo subalterno è una dinamica che serve a ristabilire e consolidare rapporti di potere, basati su privilegi.
Ribattere che le argomentazioni a sostegno delle rivendicazioni della persona che le esprime sono sbagliate, esagerate, non pertinenti; che vanno espresse in modo più moderato, esprimendo giudizi o pregiudizi, trattando la persona sarda che dichiara di non sentirsi italiana come se dovesse scusarsi per questo, è tone policing.
Il tone policing è una microaggressione verbale che avviene quando una persona in una posizione di privilegio si sente in diritto di silenziare l’interlocutore o l’interlocutrice che si autodefinisce come appartenente a un contesto svantaggiato.
Nel dubbio, è preferibile validare le esperienze altrui, offrire un ascolto umile, riconoscere i propri limiti nella comprensione dell’argomento e, soprattutto, evitare di presumere di poter comprendere pienamente il vissuto dell’altro o di saperne quanto se non più di chi fa parte del gruppo che si dichiara svantaggiato.
Il contributo a perpetrare meccanismi di minorizzazione, discriminazione e razzializzazione può anche essere inconscio o non intenzionale, ma questo non lo rende meno grave.
Suvvia, non deve essere per forza un noi/voi: per evitarlo serve prendere coscienza delle proprie responsabilità e dei propri privilegi. Una democrazia sana non teme la diversità e l’ampliamento dei diritti. Ma a pensarci bene, forse l’Italia non è pronta.
Bibliografia:
Orrù, Alice, Valentina Di Michele, Andrea Fiacchi (2022). Scrivi e lascia vivere
Onnis, Omar. Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso
Onnis, Omar L’enigma sardo: un tentativo di spiegazione in Filosofia de Logu
Pili, Andria Omaggio sardo a Frantz Fanon nel centenario dalla sua nascita in S’Indipendente
Sabino, Cristiano. Insularità e Autonomia differenziata, in S’Indipendente
Bourdieu, Pierre (1998). La violenza simbolica.
Spivak, Gayatri Chakravorty Can the subaltern speak?
Hall, Stuart (ed.). Questions of Cultural Identity.
Smith, Anthony D. Ethnic Origins of Nations.
hooks, bell Elogio del margine
Borghi, Rachele Decolonialità e privilegio
Gramsci, Antonio. Quaderni del carcere
Fanon, Frantz. I dannati della terra.
Immagine in evidenza, autore: RosaRuja fonte Corbula


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