La Sardegna selvaggia e incontaminata è uno dei luoghi comuni più radicati nell’immaginario collettivo. Dalla letteratura di viaggio al marketing turistico, dai blog ai reel sui social network fino alle opinioni da noi stesse persone sarde veicolate con orgoglio, l’isola viene spesso descritta come una terra “autentica”, che si offre a un target interessato a esperienze “lontane dal caos” (o dalla civiltà?).

In questo articolo parlo di come l’immagine della Sardegna incontaminata sia in realtà una costruzione culturale che affonda le radici nei resoconti coloniali del Settecento e Ottocento. Scopriremo come viaggiatori e studiosi europei abbiano creato il mito della “Sardegna selvaggia”, influenzando non solo la percezione esterna dell’isola, ma anche la costruzione dell’identità sarda.

Attraverso le lenti degli studi post-coloniali e dell’ecocritica, vedremo come il concetto di “natura selvaggia” sia sempre stato utilizzato per giustificare rapporti di potere e forme di controllo territoriale. Un’analisi che ci porterà a riflettere criticamente sui luoghi comuni sulla Sardegna e sulle loro implicazioni contemporanee.

Sarà un ragionamento suddiviso in due parti, la seconda la trovi qui!

Il mito della natura selvaggia – La critica post-coloniale e ecofemminista

Il concetto della natura selvaggia e incontaminata ha a lungo dominato l’immaginario occidentale come un’idea di paesaggio privo o non intaccato dalla presenza umana, simbolo di autenticità. Questo mito si fonda sulla separazione che divide il mondo “naturale” dall’intervento umano, dalla cultura.
Divisione che, nella pratica, non esiste.
Inoltre, come vedremo, gli studi post-coloniali e l’ecocritica, con il contributo femminista, hanno indagato e smantellato questo paradigma, evidenziando come l’idea di natura selvaggia e incontaminata sia una costruzione ideologica legata a pratiche di dominio coloniale e patriarcale.

Mark Dowie, nel saggio Il mito di una wilderness senza esseri umani, definisce il mito della wilderness come una negazione storica e politica della presenza indigena.
In realtà, come sottolinea Dowie citando Jack Turner, “il concetto di natura selvaggia non è determinato dall’assenza di esseri umani, ma dalla relazione tra persone e ambiente”.

Secondo altri studiosi come William Cronon, la percezione di natura incontaminata come luogo “senza tracce umane” è un mito che ha contribuito a identificare erroneamente la natura selvaggia con un’assenza di umanità. L’idea di natura incontaminata è criticata poiché riflette una visione dualistica e antropocentrica: un paradigma che nasconde storie di esclusione, violenza e sfruttamento, e impedisce di riconoscere il ruolo attivo degli umani nei processi ecologici. Molti studi evidenziano come anche i luoghi attualmente definiti “selvaggi” siano spesso il risultato di pratiche agricole, pastorali o gestioni tradizionali che mantengono oppure creano quegli ecosistemi.

Parallelamente, Edward Said nel suo Orientalism spiega come l’altro coloniale sia una rappresentazione esterna che serve a strutturare e mantenere il potere.
Questo processo, applicato alla natura, alimenta l’idea di territori “selvaggi” come spazi da conquistare e civilizzare.

Il mito della “natura incontaminata e selvaggia”:

  • Riproduce uno sguardo esotico e primitivista, dove la natura viene percepita come altro rispetto agli esseri umani, descritti secondo una visione coloniale
  • Preserva una visione nostalgica e astratta, svincolata dalla realtà delle approfondite relazioni culturali e ambientali delle comunità locali
  • Rinforza una visione occidentale ed eurocentrica della natura, che nasconde il vero problema: il capitalismo estrattivo e distruttivo (il capitalocene)

Questa critica si integra con la letteratura post-coloniale che decostruisce il primitivismo e lo sguardo colonialista sulla natura selvaggia come spazio esotico, arretrato e privo di storia, evidenziando invece la relazione complessa e attiva tra gruppi umani, natura e potere.

La colonialità, infatti, si fonda anche sull’opposizione della soggettività nativa/migrante, come selvaggia/naturale, per giustificarne il controllo e lo sfruttamento; le studiose femministe ed ecofemministe, di cui Silvia Federici è forse la più importante, individuano nella costruzione della natura come elemento sessualizzato e femminile l’impianto di potere alla base dell’oppressione patriarcale. Altre studiose integrano questa critica storica con un’attenzione verso la dimensione politica e sociale attuale.
Ad esempio, Karen J. Warren ha proposto un’analisi che sottolinea come la dominazione di genere, razza e natura siano intrecciate e si sostengano reciprocamente. Anche Val Plumwood ha enfatizzato il rischio di una divisione dualistica – uomo/natura – che fa della natura un “altro” mutevole, inferiore, da dominare. Plumwood invita a superare questi dualismi per costruire relazioni di rispetto e reciprocità tra umani e ambiente.

Nelle riflessioni ecofemministe contemporanee emerge dunque una visione radicata e radicale che smantella il costrutto di una natura selvaggia ed incontaminata, soprattutto quando è utilizzato per giustificare forme di esclusione e di dominio, sia sulle donne che su altre soggettività, comunità e territori.
Il discorso sull’incontaminato si interseca così con quello del controllo sul corpo femminile, con la messa a tacere di saperi tradizionali e con l’appropriazione delle risorse da parte di sistemi capitalisti e patriarcali.

“Non c’è niente di naturale intorno a noi: tutto ciò che ci circonda è socialmente e storicamente prodotto. Non c’è nessuna natura incontaminata a cui aspirare o tornare.”

La Sardegna come terra selvaggia raccontata da autori del Sette- e Ottocento

La Sardegna entra nell’immaginario europeo proprio come un’isola “arcaica” sospesa nel tempo e dominata da una natura aspra e indomabile.

La percezione della Sardegna come una terra “selvaggia” e “incontaminata” si radica profondamente nei resoconti e nelle descrizioni di viaggiatori, militari e studiosi europei del Settecento e Ottocento, che si approcciarono all’isola come a un “altro” enigmatico, esterno alla civiltà continentale. Queste testimonianze contribuirono a fissare nell’immaginario collettivo un’immagine della Sardegna sospesa nel tempo e arretrata rispetto ai modelli di sviluppo europei.

Uno dei primi è Joseph Fuos, cappellano di un reggimento piemontese, che nel 1777 scrisse una serie di lettere nelle quali definiva la Sardegna come una terra dal carattere forte e quasi “inselvatichita”, descrivendo gli usi locali come arcaici e privi di modernità.
Le sue parole riflettono una percezione di lontananza storica e sociale che connota l’isola come un “altro” marginale.

Nel secolo successivo, la figura di maggior rilievo è Alberto della Marmora, che nei suoi studi e in opere come “Voyage en Sardaigne” (1819-1825) ritrae le zone interne come territori selvaggi e poco antropizzati, popolati da comunità legate a tradizioni antiche. Il suo lavoro, che combina geografia, linguistica e antropologia, sancisce una narrazione in cui la Sardegna è vista come una sorta di “altrove esotico” presente in Europa, con un fascino e un mistero carichi di ambivalenze.
Da quel momento la Sardegna entrò anche nella sfera di interesse del capitale borghese che beneficiò delle dettagliate mappe e descrizioni delle risorse dell’Isola.

Altri viaggiatori, come Charles Edwardes alla fine dell’Ottocento, confermano e ampliano questa immagine, sottolineando la vastità di paesaggi naturali intatti e la presenza di popolazioni “primitive” che, nella loro visione, incarnavano un residuo storico di civiltà meno avanzate.
Edwardes lasciò Cagliari descrivendola come pittoresca, ma non rappresentativa della “vera Sardegna”, che si aspettava di trovare all’interno dell’Isola.
Queste descrizioni, cariche di giudizi e stereotipi, contribuirono ad alimentare la fantasia di una Sardegna “incontaminata” e “selvaggia”, legata a una natura che si supponeva immune dalle trasformazioni prodotte dall’industrializzazione e dalla modernità.

Parallelamente, nella letteratura isolana, autori come Grazia Deledda plasmarono questo immaginario evidenziando la stretta relazione tra paesaggio naturale e identità culturale, e descrivendo una Sardegna autentica e dura, ma anche segnata da isolamento e marginalità.

La narrativa contraria di Sergio Atzeni

“La Sardegna descritta dai narratori e dai viaggiatori europei è un territorio magico e demoniaco, selvaggio e misterioso, luogo di visioni, soglia dell’ignoto.” Sergio Atzeni

Lo scrittore Sergio Atzeni scrisse un’opera dal titolo “Raccontar fole”, a partire proprio da questa rappresentazione della Sardegna.
Il volumetto offre una lettura critica e rielaborata della visione fornita dai viaggiatori europei, che si consideravano “evoluti”, e descrivevano il popolo sardo come meno sviluppato, talvolta “primitivo” e “selvaggio”.
Quest’ultimo, parlando una lingua propria e vivendo su un’isola percepita come uno dei confini del mondo civilizzato, veniva collocato ai margini, una terra da osservare con curiosità ma anche da mappare, descrivere e catalogare.
Questa dinamica dà vita a una rappresentazione fantasiosa e tendenziosa della Sardegna, in cui lo sguardo esterno, seppur meno coinvolto affettivamente, si fa portatore di un atteggiamento esotista e primitivista.
Nel testo è sottolineata, con tagliente ironia, la sopravvivenza per tutto l’Ottocento, e oltre, del mito del selvaggio, nella nota opposizione bontà/ferinità.

Il mito della Sardegna selvaggia e incontaminata nella costruzione identitaria

Il primitivismo narrativo e l’immagine della Sardegna come “altro interno” rispondono anche al vissuto di una “colonia interna”, oggetto di dominio e sfruttamento economico-politico da parte di potenze esterne, in perenne ricerca di rivalsa e riscatto.
Un atteggiamento che porta ancora oggi a interpretazioni forzate ed essenzialiste.
Diversi studiosi hanno affrontato il tema e messo in guardia dai rischi del ripiegamento su di sé e dalla feticizzazione di elementi identitari.

Giulio Angioni ha sottolineato come:

“La Sardegna è stata culturalmente rappresentata come luogo ‘altro’, da dominare simbolicamente con la seduzione della natura selvaggia. Il mito della natura incontaminata è funzionale a dinamiche di potere che impongono un’identità fissa e statica per meglio controllare il territorio e la gente.”
(L’antropologia della modernità, 2016).

Il mito della Sardegna selvaggia e incontaminata è usato, parallelamente, come strumento di costruzione di un mito identitario, entro l’impianto essenzialista dell’identità sarda. Il quale rischia di cristallizzare l’identità in una condizione statica e incapace di darsi gli strumenti per fondare nel presente le proprie istanze di emancipazione.

Tra gli altri, anche Placido Cherchi approfondisce questa critica mostrando come l’immagine della Sardegna «altro esotico» non sia soltanto imposta dall’esterno ma interiorizzata dagli stessi sardi in un processo di auto-orientalismo.
Questa autoesotizzazione produce una “frammentazione identitaria” che rischia di relegare i sardi in una posizione marginale e folklorica, impedendo l’esercizio di una piena soggettività politica e culturale.
Per Cherchi tale dinamica rappresenta un ostacolo strutturale allo sviluppo identitario e politico dell’isola, da affrontare attraverso una presa di coscienza critica.

L’idealizzazione della natura selvaggia e incontaminata contribuisce a un’immagine stereotipata e statica che impedisce di abbracciare la complessità storica e culturale del contesto sardo.


Nella seconda parte esamineremo come questo immaginario si traduca oggi nel marketing turistico e quali siano le reali contraddizioni ambientali che questa narrazione nasconde.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Atzeni, Sergio, Raccontar fole. La Sardegna esotica dei viaggiatori tra Sette e Ottocento riletta da Sergio Atzeni, Palermo, Sellerio, 1999
Angioni, Giulio, L’antropologia della modernità, 2016
Benvenuti, Giuliana, Raccontar fole. La Sardegna esotica dei viaggiatori tra Sette e Ottocento riletta da Sergio Atzeni
Camilotti, Silvia, Ilaria Crotti, Ricciarda Ricorda (a cura di), Leggere la lontananza. Immagini dell’altro nella letteratura di viaggio della contemporaneità, Venezia: Edizioni Ca’ Foscari, 2015
Dowie, Mark, “Il mito di una wilderness senza esseri umani”, 2024
Federici, Silvia, Calibano e la strega. Donne, corpo e accumulazione originaria, 2004
Fabbri, Giulia, studi di ecocritica post-coloniale
Lombardi Vallauri, Edoardo, Natura selvaggia, 2009
Plumwood, Val, Feminism and the Mastery of Nature, 1993
Contro il concetto di natura. Appunti per un’ecologia radicale, 2021
Warren, Karen J., Ecofeminism: Woman, Nature, Culture, 1990
Filosofia de Logu vol I – Logu e Logos vol II

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Una risposta a “Luoghi comuni: la Sardegna selvaggia e incontaminata – Parte I”

  1. […] anche perché non moderne. (La Sardegna remota non nella dimensione spaziale, ma temporale)Nella prima parte di questo ragionamento ho parlato di come il concetto di natura selvaggia sia un costrutto moderno e uno strumento del […]

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