Il disciplinamento socioculturale prescrittivo – più o meno esplicito – rispetto a che comportamenti bisogna adottare per essere persone sarde “vere” e non incorrere nell’incoerenza e nella riprovazione del gruppo di “appartenenza” nell’ambito della lotta per l’autodeterminazione, mi fa venire voglia di tifare anche la nazionale italiana di corsa nella ruota del criceto, dato che di quella di pallavolo sono fan da sempre (e continuerò ad esserlo).  

Questa condanna del tentativo e del desiderio di compensare la svalutazione di cui la cultura sarda è oggetto mi suscita un sentimento di rigetto verso i vincoli, anche quelli della mia “cultura di origine”.

C’è un grumo in cui la lotta per l’autodeterminazione si inceppa, e cioè la pretesa di rigetto dell’italianità.

Litalianità è sì un costrutto culturale, per certi versi anche una forma di mistificazione storica. Il nazionalismo tossico italiano intride ogni contesto, anche lo sport – questo è innegabile (si veda la cultura intorno alla nazionale maschile di calcio).
È altrettanto innegabile che l’italianità sia anche parte del meticciato che caratterizza le persone sarde. Senz’altro è parte del mio.

Troppo italiana per essere abbastanza sarda e al tempo stesso la mia sardità mette in discussione la rappresentazione dell’identità italiana. Troppo vaga, indefinita, ambivalente.

La ribellione è eredità del mio popolo e retaggio della pratica femminista.
E a me, se c’è una cosa che fa veramente incazzare, è quando qualcuno mi giudica, mi dice cosa devo fare o dire per essere riconosciuta e legittimata senza ascoltare, senza umiltà.

La mestiza di Gloria Anzaldúa, per un recupero del meticciato

La sociologa e scrittrice Gloria Anzaldúa scrive, in “Terre di confine. La Frontera”:

Conosco ciò che non va della mia cultura. Non passo più tempo a rigettarla, ma non mi sento obbligata a obbedire ad alcun vincolo, a spuntare alcuna casella.

La disapprovazione del desiderio – a volte inconsapevole e maldestro – di compensare la costante svalutazione di cui la cultura sarda è oggetto mi suscita un sentimento di rifiuto.
Non sempre quel desiderio viene dall’adesione ai valori e ai principi del nazionalismo italiano.

Quella di puntare il dito e colpevolizzare chi assume comportamenti giudicati come contraddittori, incoerenti, inconsapevoli e di usare parole come “autocolonizzatə” in senso dispregiativo, è una pratica che non condividerò MAI.
Non la riconosco, e anzi la rifiuto con tutte le mie forze, esattamente come quella di usare la violenza verbale verso le persone che non si comportano secondo aspettative – anche quando queste aspettative sono legittime.

Il femminismo mi ha insegnato che la rabbia è politica, ma anche che quella rabbia va indirizzata verso il sistema e verso – eventualmente – chi sta ai vertici, chi detiene e amministra il potere dell’oppressore.
Non verso gli individui per ciò che sono (mi riferisco agli italiani che si sentono tali e vivono in Sardegna, a chi si sente rappresentato da Alessia Orro, ad Alessia Orro stessa, a Geppi Cucciari, a Mahmood, e così via).

Che questo non passi per una scappatoia alla presa di coscienza del privilegio che detiene chi fa parte della cultura dominante. Questo privilegio va usato per sostenere la causa delle minoranze, per lottare per i riconoscimenti e per i diritti. E ogni giorno abbiamo il dovere di chiedere che questo privilegio venga usato per delle giuste cause.
Dico che attaccare E BASTA le persone che si vorrebbe sposassero le proprie cause non porta a risultati, ma solo a rafforzare la contrapposizione noi / loro, a fare propria la prassi di costituzione di un’ alterità dalla quale distinguersi e difendersi.

Il cambiamento passa dalla cura

Pretendere il rigetto dell’italianità e di tutto ciò che vi si lega può significare fare propri gli stessi strumenti di chi opprime. Se da un lato è vero che in un quadro di disparità di potere, la discriminazione al contrario non può verificarsi, è vero anche che non si può tagliare con l’accetta un reale complesso.

Il femminismo mi ha insegnato – e mi insegna – che il cambiamento passa dalla CURA.

Non tutte le persone hanno lo stesso vissuto, gli stessi strumenti e non tutte le persone attribuiscono il medesimo significato a un’impresa sportiva.
Bisogna saper capire quando quel desiderio di riconoscimento frustrato, quell’orgoglio che si può ritenere mal riposto, va rispettato, ascoltato e, con umiltà, incontrato. Sempre che si voglia realizzare un percorso reale di emancipazione della Sardegna basato non su un’idea essenzialista (il diritto per natura, genetica, etnia, storia) ma sulle condizioni attuali, su chi siamo, su chi vogliamo essere oggi.

L’italianità va nominata, studiata e auspicabilmente decostruita, ma – che piaccia o no (e se no abbiamo un serio problema) – andrebbe parallelamente integrata in un processo multidimensionale di pacificazione. In cui prendere coscienza del privilegio bianco e di cittadinanza e anche del ruolo del popolo sardo nella messa in discussione della bianchezza dell’Italia nonché dell’essenza stessa del nazionalismo italiano.

Ricordiamoci, tuttavia, che il nostro meticciato mette in crisi anche l’idea della “vera e pura sardità”.

Per molte persone sarde l’italianità fa parte della propria identità, non è un corpo estraneo che si può rimuovere. Con questo bisogna farci i conti.
Altrimenti il giorno che la Sardegna sarà un’entità statale indipendente che si fa con chi è troppo italiano?

Foto Ansa

Ma poi, che errore credere che la squadra di volley femminile che ha vinto il mondiale incarni il nazionalismo italiano – che errore grossolano!
Questa è una squadra che quel sentimento lo imbarazza.
In un contesto strutturalmente razzista, che l’Italia sia rappresentata nel mondo da gente come Egonu, Sylla, Orro, ma anche Jannik Sinner (che non è solo “troppo poco italiano” culturalmente, ma è anche poco aderente allo stereotipo della mascolinità virile e machista), mette in crisi il modello che il nazionalismo italiano tenta di affermare e riaffermare.
Per il semplice fatto che ciò che queste persone rappresentano non conferma quel modello. Ne evidenzia la fragilità e l’inconsistenza.

Non voglio sentirmi in colpa se esulto ai loro successi: non mi va di vergognarmi di niente, né della mia sardità né della mia italianità o di qualsiasi altra cosa mi porti (a parte la passione per il volley) a seguire le vicende del campionato e della nazionale italiana di pallavolo.
In quella squadra sono molte delle mie giocatrici preferite (non sono le uniche: tra le mie beniamine ci sono Gabi, Güneş, Ana Cristina, Bošković, Wada, Fukudome, per fare qualche nome) guardo tutte le loro partite, mi è anche venuto il mal di gola a forza di esultare. Alessia Orro manifesta la sua identità come le pare.
Io faccio quello che mi pare.
Mettiamola pure in cima alle caselle che non possono essere spuntate per misurarmi come sarda o per ammettermi alla lotta per l’autodeterminazione della Sardegna.
Dai, datemi dell’autocolonizzata, anzi, dell’autocoglionizzata.

(Non so rintracciare chi ha scattato questa foto, l’ho presa da Facebook in un mio vecchio post)



Io voglio fare i conti con tutte le mie culture. Le voglio far coesistere, quella sarda e quella italiana, pretendo che ci sia spazio per la non conformità. Pretendo che chiunque si radichi in Sardegna possa contenere e manifestare tutti i suoi retaggi.
Di un cambiamento dove semplicemente si vogliono invertire i rapporti di potere non me ne faccio nulla, non voglio farne parte.

E, concludo citando ancora Gloria Anzaldúa, “se tornare a casa mi è negato, allora devo alzarmi per reclamare il mio spazio, costruendo una nuova cultura – una cultura mestiza – col mio legname, i miei mattoni e il mio mortaio e la mia architettura femminista.”

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2 risposte a “Datemi dell’autocolonizzata, dai”

  1. Avatar Alessandra Vaccargiu
    Alessandra Vaccargiu

    Bellissimo articolo! Coraggioso ed equilibrato al contempo 👏🏻

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