Che relazione abbiamo coi luoghi? Come ci costruiamo un’opinione su di essi?
Quanto spesso capita di reputare di scarso valore un luogo perché perché lo consideriamo “brutto”/“degradato”?

Ci soffermiamo a chiederci secondo quali criteri e standard e chi li abbia stabiliti?

In questo articolo parlo del perché, prima di dare “la colpa ai sardi” per i problemi dell’isola, ci si dovrebbe fare delle domande sui pregiudizi e gli autopregiudizi che ci condizionano tuttə e che spesso influiscono fortemente sui progetti di innovazione, rinnovamento e ripopolamento. Che non attecchiscono non per forza per “colpa delle persone”, ma perché non si ascoltano i gruppi sociali di cui si dichiara di voler migliorare le condizioni. Di essi non si parla se non come portatori di disvalori e di responsabilità, senza considerare il quadro più ampio che produce disparità e depressione economica e sociale.

Gli autopregiudizi proliferano grazie all’invisibilizzazione della cornice di subalternità: è molto difficile contrastarli proprio per questo, perché non si riesce a riconoscere come tali gli stereotipi sociali e storici che ci riguardano.

Questo posto è abbandonato, desolato.
Il linguaggio squalificante: bias, pregiudizi e autopregiudizi

Cognitivamente percepiti solo come degradati (anche se abbandonato e disabitato sono concetti diversi) gli spazi non standard, diventano oggetto di una pianificazione che li vuole cancellare, risignificandoli senza averli compresi.
Una progettazione in chiave innovativa, pensata in questi termini, è condizionata da bias di classe soprattutto, ma anche di genere, di razza eccetera. (Un bias cognitivo è un automatismo mentale (non intenzionale) inevitabilmente presente nella mente di chiunque, basato su percezioni errate o deformate o su pregiudizi o stereotipi, usati per prendere decisioni in fretta e senza fatica).
Invece che attenuarle, aumenta le disuguaglianze o ne produce di nuove. E quando l’innovazione viene rigettata, si colpevolizzano le comunità. Che -specie se marginali- non vengono ascoltate, ma, anzi, colpevolizzate, accusate di disinteressarsi del luogo che abitano.

L’invisibilizzazione della subalternità

Il concetto di subalternità si è evoluto dal pensiero di Antonio Gramsci. Gramsci, con il suo focus sulla questione meridionale e il ruolo degli intellettuali, ha posto le basi per vedere i subalterni come soggetti in grado di assumere un ruolo politico e culturale di emancipazione, aprendo lo spazio perché trovassero voce entro una società egemonica. Tuttavia, nella tradizione politica e culturale sarda, questa potenzialità si è in parte persa, perché la cultura subalterna è legittimata solo in quanto portatrice di folklore.

Gayatri Chakravorty Spivak, filosofa statunitense di origine bengalese, nel celebre saggio “Can the Subaltern Speak?”, spiega che il subalterno è costruito dall’Altro dominante e non ha “voce” autonoma perché qualsiasi discorso su di lui è sempre mediato e manipolato dalle narrazioni del potere coloniale o neocoloniale.
Interessante è l’apporto teorico della studiosa boliviana Silvia Rivera Cusicanqui, la quale sviluppa un approccio alla subalternità che diverge significativamente dalle teorie postcoloniali classiche. Critica l’ossessione accademica per la rappresentazione dei subalterni, sostiene la necessità di “produrre pensiero a partire dal quotidiano” con il mantenimento delle contraddizioni invece che risolverle, piuttosto che dipendere dalle categorie teoriche occidentali.
La subalternità non sarebbe quindi semplicemente una condizione da superare attraverso l’emancipazione, ma piuttosto uno spazio fertile di creatività dove le contraddizioni generano nuove possibilità di esistenza che non si conformano né alle logiche dominanti né a quelle puramente “tradizionali”.

Per per comprendere la subalternità in Sardegna, dove le soggettività subalterne sono costrette a scegliere tra narrazioni di tradizione o di modernità, tra restare o andare, tra arretratezza e progresso, occorre tenere conto di tali chiavi interpretative.
Questa situazione crea un’identità ambigua e frammentata, nell’alternanza tra espressione e repressione, che non di rado sfocia in un certo malessere identitario. Per lo studioso Alessandro Mongili è necessario un approccio che riconosca l’ibridità, la pluralità e l’ambiguità delle pratiche culturali come occasioni di emancipazione e trasformazione. Le pratiche locali da “far avanzare” vengono de-territorializzate, connesse a reti globali, tecnologie digitali ecc per poi essere ri-localizzate ovvero radicate in luoghi specifici e incorporate in pratiche locali concrete.

Gli attriti tra spinte innovatrici e comunità ricevente vengono spesso interpretati come inerzia al cambiamento, attaccamento “a su connotu”, arretratezza. Mai (o quasi) si includono “i rapporti di potere e quindi la subalternità, oltre alla marginalizzazione o all’appartenenza periferica dei partecipanti” (Alessandro Mongili, Innovazione e subalternità, il caso della Sardegna).

Pregiudizi di classe e oppressioni sistemiche

I corpi che popolano gli spazi, squalificati come degradati, abbandonati, brutti, diventano un elemento secondario, vengono oggettificati nei sistemi di riqualificazione e rinnovamento che cercano di dare a tutto una funzione (produttiva, attrattiva, esteticamente conforme).
Le persone e le comunità che abitano luoghi narrati come “desolati”, “abbandonati” ecc, vengono colpevolizzate, considerate responsabili della condizione del luogo. E della propria condizione. Vengono accusate di essere “le prime che inquinano, sporcano”, vengono accusate di inerzia e resistenza all’innovazione, di “non capire”. Questo atteggiamento, frutto di bias di classe, e non solo, impedisce di presupporre l’ascolto e la comprensione profonda dei fenomeni.

Si tratta il sintomo come se fosse la malattia.

Il problema non è la critica in sé, ma che non si indaghino le ragioni alla base della condizione che si vuole risolvere. La desertificazione industriale, l’occupazione militare, il turismo estrattivo, l’estirpazione delle vocazioni dei territori in nome dello sviluppo. Il colonialismo interno. E non si fa perché non ci si vuole far carico di mettere in discussione il rapporto con lo stato italiano. In primis a livello mentale, psicologico, identitario.
Rinegoziare i termini di tale relazione si può fare anche credendo che l’indipendenza formale non sia la soluzione a tutti i problemi.

È colpa nostra, delle persone sarde

Nel quadro di uno squilibrio di potere (tra chi si pone come soggetto che fa avanzare e chi deve essere fatto evolvere) le conoscenze locali perdono forza, vengono estratte e immesse in flussi globali. Sono subordinate, rimangono tali anche se l’intento era favorirne lo sviluppo.

Vengono riproposte, in qualche modo reintrodotte nel contesto, ma mantengono la stessa struttura di potere: chi è depositario delle competenze con un maggior valore di mercato (in una società in cui il benessere equivale al profitto), chi controlla i processi, chi ne trae vantaggio senza porsi il problema di una equa redistribuzione.

I progetti di innovazione vengono rigettati perché (non sempre, ma spesso) si basano su pratiche di esclusione e discriminazione.
Nella mentalità di chi li concepisce, le persone destinatarie non sono portatrici di valore, come non lo sono i luoghi che abitano (e che devono essere attrattivi: ma attrattivi per chi?), bensì di problemi. Sono una seccatura, si comportano così perché sono ignoranti e vogliono che le cose restino come sono. Ma chi è che, liberamente, in piena coscienza vorrebbe restare in una condizione di disagio? Questi ragionamenti non si estendono mai (o quasi) alle élite politiche e culturali, che hanno invece molti interessi a mantenere lo status quo, nella tutela dei loro privilegi e della loro posizione di potere.

Le classi subalterne, con la parte di società che rivendica la sua condizione di cultura minoritaria, non sono considerate interlocutrici alla pari, non vengono riconosciute nella loro dignità, non vengono dati loro gli strumenti per autodeterminarsi, la politica non le rappresenta, anzi: le ignora (ricordiamoci cosa è successo con la legge di iniziativa popolare Pratobello, a prescindere dalla sua validità). E poi ci si stupisce se non accolgono a braccia aperte le opportunità di salvezza. E poi ci si scandalizza dell’astensionismo elettorale. Si dice che “è colpa nostra, dei sardi”.
Che certi comportamenti, anche quelli meno conservativi, siano frutto di strategie di adattamento (come fanno le persone nella risposta a un trauma profondo) non sfiora mai (o quasi) la mente di chi vuole innovare, riqualificare, rigenerare.

Si pretende di (pre)determinare il futuro dei luoghi da esterni, senza coinvolgere le comunità, dando più o meno importanza alle persone che li popolano (o vorremmo li popolasse → ripopolamento borghese o ricco, bianco). 

La nostra percezione dei segni della presenza umana in un luogo è dinamica e sfaccettata.
I luoghi non hanno un’importanza intrinseca: il paesaggio diventa significativo per una comunità quando questa vi riconosce le tracce della propria memoria -storica e umana-.

Le categorie che orientano il gusto estetico cambiano continuamente, non sono oggettive o universali. Spazi dediti al lavoro, strutture che hanno perso la loro originaria funzione, un tempo rigettati, anche se allo stato di rudere, possono diventare oggetto di tutela per quello che rappresentano, più che per le loro caratteristiche estetiche.

La relazione tra l’assenza di uso, di attività, e il senso di libertà, di aspettativa, è fondamentale per comprendere il potenziale evocativo del terrain vague della città. Il vuoto, l’assenza, ma anche la promessa, lo spazio del possibile, delle aspettative

De Solà Morales, Terrein Vague

Senza un lavoro di decolonizzazione e di decostruzione, si finisce per non tenere conto del fatto che:

Qualsiasi utopia di giardini ben curati può rappresentare un gesto violento [che non porta] a nulla di buono

Lidia Decandia, Anime dei luoghi. 

Abituarsi a decolonizzare il proprio sguardo sulla Sardegna e le discipline sarebbe trasformativo e rivoluzionario! Ci permetterebbe di concepire i luoghi fuori da certi parametri e a considerarli -a prescindere da tutto- come “componenti attive della società e della cultura.” (Lo spiega la geografa e ricercatrice Martina Loi in “Interstizi urbani: spazi di possibilità? Esplorazioni urbane e pratiche informali attorno alla 554 cagliaritana”.)

Anche quando sono non conformi, anche quando sono vuoti (apparentemente).

Il vuoto è anche possibilità.



Fonti principali

Mongili, Alessandro Innovazione e subalternità, il caso della Sardegna; Topologie post coloniali
Loi, Martina Interstizi urbani: spazi di possibilità? Esplorazioni urbane e pratiche informali attorno alla 554 cagliaritana
Spivak, Gayatri Chakravorty Can the subaltern speak?
Gramsci, Antonio Quaderni dal carcere
Pili, Andria Questione sarda: arretratezza o subalternità?

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