Il margine come spazio di azione politica: storie di comunità solidali

foto da “il manifesto sardo”

La storia della coscienza di classe in Sardegna si intreccia con le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici che, tra miniere, manifatture e contesti di pesante sfruttamento industriale, hanno dato vita a un’identità collettiva resistente e politicizzata

Questo articolo ripercorre alcuni momenti cruciali di quel percorso: dalle donne e bambine delle miniere del Sulcis alle sigaraie della Manifattura Tabacchi di Cagliari, fino allo sciopero dei 72 giorni dei minatori di Carbonia. Una genealogia della lotta sociale sarda che ci restituisce un’Isola attivamente impegnata nella costruzione di una propria dignità di classe. Un agire civile che ha incontrato spessissimo la dura repressione da parte di uno stato e di una cultura patriarcale e capitalista che hanno fondato il concetto sviluppo sulla povertà e sull’oppressione di una parte del territorio e della popolazione.

Il margine, luogo di resistenza

La Sardegna è stata un margine trasformato in spazio di resistenza e azione di lotta per il riconoscimento dei diritti sul lavoro.
Lavoratori e lavoratrici sarde hanno saputo elaborare una coscienza di classe nelle miniere, nelle manifatture e in tutti i contesti di sfruttamento.
Lo stato italiano interveniva poco e male nella questione operaia e poiché l’intervento del padronato industriale era debole, i problemi dei minatori sardi (il cui movimento si andava organizzando all’inizio del XX in Iglesiente) si esacerbarono fino al punto che, nel primo Novecento esplosero in disordini che provocarono misure durissime contro i lavoratori, sui quali pesava anche la mancanza di una tradizione sindacale capace di incanalare in maniera costruttiva le proteste.
Per lungo tempo, l’unica società operaia di mutuo soccorso esistente nel bacino minerario fu, infatti, quella di Iglesias, volutamente spoliticizzata e sostanzialmente controllata dagli imprenditori minerari.
Successivamente in tutte le principali miniere (Buggerru, Nebida, Masua, Gonnesa, Guspini, Iglesias, Carloforte) sorsero leghe di resistenza socialista.

foto da Agoravox


Il ruolo delle donne nella lotta di classe

La Manifattura Tabacchi di Cagliari era diventata già nei primi anni del XIX secolo la più importante industria cittadina.
Sul finire dell’Ottocento, mentre lo stabilimento si ingrandiva con l’acquisizione di un terreno ceduto gratuitamente dal Comune di Cagliari, le operaie costituivano oltre il 94% dei salariati in servizio.
Non fu un caso che l’avanguardia della protesta del 1906 fosse rappresentata proprio dalle operaie della Manifattura: una delle poche realtà industriali cittadine capaci di far massa.
Le sigaraie, inizialmente organizzate nella sezione donne della Società operaia di mutuo soccorso, si costituirono in Lega di resistenza il 22 giugno 1901.
Nel loro statuto, accanto alla lotta sindacale, vi erano forme di mutua assistenza, anche in caso di sospensione dal servizio.
La nascita della Lega di resistenza, promossa dal socialista Jago Siotto (avvocato, giornalista e futuro direttore dell’Unione Sarda tra il 1943 e il 1944), segnò l’inizio di un lungo periodo di mobilitazioni.
Già nel 1901 le sigaraie scioperarono in massa per ottenere miglioramenti salariali e condizioni di lavoro pari a quelle delle altre manifatture italiane.

All’interno delle miniere le donne spaccavano, selezionavano e insaccavano il materiale. Le cernitrici lavoravano esposte alle intemperie e in condizioni di sfruttamento e violenza, non solo salariale, ma anche perché vivevano costantemente il rischio di subire abusi di ogni tipo.
La scrittrice Valeria Pecora ne parla nel romanzo Mimma, uscito nel 2017, la cui protagonista si allontana dal contesto minerario.
Nella miniera di Montevecchio come in quelle di Ingurtosu e Gennemari, donne e minori hanno subito soprusi, sfruttamento e soppraffazione. Con tenaci lotte hanno sfidato una cultura capitalistica patriarcale che costruiva il suo sviluppo sulla povertà di parte della popolazione.
Le bambine e le donne morte nella miniera di Montevecchio il 4 maggio 1871 sono il simbolo di una presa di coscienza collettiva guidata dalla compagine femminile.

I salari delle donne erano nettamente inferiori a quelli maschili, e la loro manodopera veniva reperita su larga scala, ritenuta, a causa degli stereotipi di cui era oggetto, più docile e sottomessa.
Il ruolo delle donne nella lotta di classe rappresenta un rimosso storiografico, ma è di fondamentale interesse dal momento che colloca la Sardegna nell’intersezione tra fenomeni internazionali di grande rilevanza come il movimento operaio e quello femminista.

Le attività di mutuo soccorso e la partecipazione agli scioperi si basarono in gran parte su reti di solidarietà di quartiere nell’ambito delle quali la partecipazione delle donne risultò fondamentale.

Carbonia e lo sciopero dei 72 giorni

L’onda delle lotta sul carbone arrivò a coinvolgere anche le miniere del bacino metallifero, che lottarono per modificare il sistema dei cottimi e ottenere aumenti salariali.
La lunga agitazione del 1948 è un simbolo per la città di Carbonia.
Lo sciopero dei 72 giorni, svoltosi tra ottobre e il 18 dicembre del 1948, rappresenta un’esperienza di solidarietà e di resistenza, non solo dei lavoratori ma dell’intera popolazione di Carbonia. Da tale vissuto la città uscì con un’identità più definita e con una personalità più accentuatamente sarda.
Non solo perché la popolazione operaia era sarda, nonostante i consistenti apporti da altre regioni, ma perché la presa di coscienza politica e culturale dei lavoratori e della popolazione contribuì a intensificare i rapporti tra Carbonia, il Sulcis Iglesiente e la Sardegna tutta.

Attorno a quella lotta si mobilitarono anche i lavoratori del Guspinese-Iglesiente e di tutte le miniere sarde, insieme alle popolazioni dei centri agricoli del Sulcis e dell’Oristanese.
I caduti negli scontri repressivi contro le proteste operaie furono numerosi: per ricordarli si possono citare l’eccidio di Buggerru del 1904 , menzionato anche da Giuseppe Dessì in Paese d’ombre; l’uccisione di alcuni manifestanti a Villasalto nel 1906; o le vittime degli scontri del 1920 a Iglesias.

Il primo maggio è un’occasione per ricordare come in Sardegna, spesso percepita come arretrata e periferica rispetto a un “centro” collocato nel continente, si sia sviluppato un movimento operaio vivo, articolato e radicato nel territorio, capace di esprimere forme originali di mobilitazione, solidarietà e rivendicazione

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