Sono a Maddalena spiaggia, nel comune di Capoterra, l’unica raggiungibile in tempi ragionevoli dalla casa in cui abito. Non mi piace molto, a dire il vero. 
Mi rimprovero: in fondo riesco a inserire qualche ora al mare nella mia vita quotidiana, tutto sommato l’acqua non è neanche troppo torbida. Il maestrale sta portando via i residui delle navi che passano dal Porto industriale. 
Qualcun altro al mio posto direbbe che è un privilegio abitare così vicino al mare. Che vivere in Sardegna è come vivere in paradiso.
Sarebbe davvero un bel posto, quello in cui sto: i monti di Capoterra, la laguna coi fenicotteri, il mare.
Lo è, in effetti, se si è abituatə, o si fa finta di non vedere il resto. Se lo si considera “normale”.

“Ma possibile che non riesci a goderti un paio d’ore di svago?”, mi dico. La storia di chi ha radici in Sardegna, secondo me, non può essere solo la storia di un chi. Deve essere anche la storia di un dove. Un dove prossimo, e un dove più ampio. Altrimenti raccontarsi è, magari, un riuscitissimo esercizio narrativo, ma pur sempre quello che resta di un grande rimosso collettivo.

Dal mio ombrellone in riva al mare, in una bella giornata di luglio, è impossibile far finta di non abitare una terra schiacciata tra le industrie di Macchiareddu, il Porto Canale, e quella che io e mio marito chiamiamo Mordor, per via delle fiamme sempre accese: la SARAS.

La SARAS, Società Anonima Raffinerie Sarde, fu fondata nel 1962 da Angelo Moratti. Tanto decantata (anche dalle guide turistiche che portano in tour i croceristi) come:

“La più grande fabbrica del Mediterraneo”, può arrivare a gestire il 21% della lavorazione complessiva delle raffinerie italiane con 300.000 barili al giorno.

(Questa narrazione è da collegare alla necessità di dimostrare ai visitatori stranieri che in Sardegna non ci sono “solo pecore”, ma anche le industrie. Una necessità derivante dal senso d’inferiorità indotto e/o introiettato inconsapevolmente nel contesto italiano.)
L’impianto è collocato in un “punto strategico”, ovvero letteralmente davanti a uno dei siti nuragici più rilevanti della Sardegna, il nuraghe Antigori. Importantissimo perché ha restituito grandi quantità di ceramica micenea, attestanti il ruolo centrale della Sardegna come crocevia nel Mediterraneo.

La SARAS e il Piano di Rinascita

Per leggere il contesto correttamente occorre disporre della maggiore quantità possibile di informazioni.
In questo caso, è indispensabile parlare del Piano di Rinascita, senza conoscere il quale, l’industrializzazione della Sardegna potrebbe essere vista come un fenomeno a sé, virtuoso, anzi necessario per “modernizzare” l’Isola.

Con la Legge 588 del 1962 lo stato italiano finanziava un significativo intervento sull’Isola. Teoricamente con la finalità di riformare il settore primario e in particolare l’agricoltura. In pratica, invece, quegli interventi privilegiarono l’industrializzazione.
Vennero creati 2 poli, uno a Porto Torres e questo di Sarroch.
Grazie alle agevolazioni previste dallo stato italiano, i Moratti e i Rovelli beneficiarono della possibilità di non mettere nulla a bilancio per gli ammortamenti.

Dal contesto internazionale arrivarono forti critiche verso l’inadeguatezza di questi impianti, nati già obsoleti, per altro.

Questi interventi dello stato italiano, arrivarono a seguito delle lunghissime operazioni di bonifica delle aree malariche, iniziate in epoca fascista ma conclusesi solo con il contributo della Rockefeller Foundation a metà anni Cinquanta del Novecento, con massicce disinfestazioni a base di ddt.

Cosa c’entra? Ci arriviamo.

La Sardegna del Dopoguerra

Il contesto in cui questa trasformazione avveniva era subalterno rispetto all’Italia già da parecchio tempo. Ma invece che interrogarsi sul complesso di ragioni storiche, economiche e sociali che dall’età sabauda hanno fatto della Sardegna un bacino di estrazione a beneficio dello sviluppo “della nazione” (= di parte di essa, il ricco Nord), si è somministrata ai sardi la prospettiva dell’uscita dall’arretratezza, e infatti…

…Nel 2024, Salvatore Sini, della segreteria nazionale Uiltec e responsabile dipartimento Saras, dichiarava: “dopo le miniere che oggi hanno chiuso, la Saras è la vera industria della Sardegna. È inutile girarci attorno, l’avvento della raffineria ha portato scolarizzazione, economia e crescita – dice – basti pensare che prima dell’industrializzazione, il numero dei diplomati era bassissimo e l’attività prevalente nel territorio era quella agropastorale. 

L’attività industriale ha, invece, permesso a moltissime persone di poter studiare – aggiunge – nel corso degli anni è cresciuto il numero dei diplomati e laureati. Non a caso, proprio i giovani tecnici diplomati e laureati che si sono formati hanno trovato impiego all’interno dell’azienda”.

Ci sarebbe molto da dire su questo discorso, ma restiamo sul punto centrale della questione: “prima dell’industrializzazione, il numero dei diplomati era bassissimo e l’attività prevalente nel territorio era quella agropastorale.
Il vero scopo del piano di Rinascita era proprio smantellare le forme di produzione e di socializzazione: il tessuto culturale tradizionale, nelle zone interne soprattutto, ma non solo. In quegli anni si consolidava, infatti, la narrazione che collega il banditismo alla cultura pastorale.
Sono, per l’appunto, del 1969 i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni criminali della Sardegna.

Le promesse mancate

Vista da questa prospettiva, la scelta apparentemente insensata di aprire una fabbrica a Ottana, un paese che, per dire, sorge in una piana lontanissima dalla vie di comunicazione, diventa perfettamente coerente con la direzione che la Sardegna doveva prendere. 

[Ottana fu un fiorente centro religioso (si intuisce dalla raffinatezza della Chiesa di San Nicola) dalla vocazione agropastorale, finché non arrivarono la malaria, la criminalizzazione della pastorizia, e poi l’industria.]

Eppure (incredibile, eh?) il Piano di Rinascita non risolse i problemi economici dell’isola.
Gli occupati nel settore industriale calarono e cominciò la diaspora della popolazione sarda.

Certo, me ne rendo conto: è poco romantico spiegato così, invece che con esercizi letterari che parlano di cortili polverosi, di pomodori secchi al sole, e di nonne che, nel dopoguerra, percorrevano chilometri per andare al piccolo appezzamento di terra fuori dal centro abitato; di donne che facevano la conserva e lavavano i panni al fiume. Come se quella condizione fosse frutto di una mentalità su cui proiettare il concetto tutto nostro della “vita lenta”.

A noi sardə piace molto cercarci nelle storie altrui, nelle narrazioni preconfezionate, perché siamo abituatə a farci dire, più che a raccontarci. Usiamo la creatività per scavare in un -intuìto- patrimonio socio antropologico senza averne una reale conoscenza, per spiegare perfino a noi stessə cose che hanno cause e conseguenze, ma che noi non conosciamo.
Perché, non per scelta nostra (e ciò non significa che cambiare le cose non sia una responsabilità collettiva), il potere delle nostre trame è stato ceduto ad altri, per prendere in prestito le parole di Michela Murgia dalla prefazione del libro di Omar Onnis, “Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso”.

Cos’altro ha portato la SARAS?

Risulta chiaro, quindi, il motivo per il quale si preferisca non parlare delle altre cose che ha portato la SARAS, sia mai che a qualcuno venga il dubbio che forse non valga tanto la pena doversi chiudere in casa anche per giornate intere per colpa dei miasmi della fabbrica. Succede spesso.

Puntualmente i gestori riferiscono di non riscontrare anomalie. Nel 2014 il Manifesto Sardo denunciava l’incidenza elevata di casi di malattie e potenziali pericoli per la popolazione, eppure eccoci qui.

Parte della popolazione, che non ha colpa, difende la SARAS perché così sopravvive. C’è una filiera di attività ad essa collegata. Cos’altro dovrebbe fare una comunità per adattarsi, se le vocazioni del territorio sono state indebolite e poi sostituite con prospettive di guadagno, istruzione, sviluppo?

Sapersi dire, riprendere parola significa acquisire gli strumenti per comprendere le ragioni e gli esiti di trasformazioni che hanno penalizzato le economie preesistenti in nome dell’uscita dall’arretratezza. E rintracciare questo concetto e del suo ruolo, nel processo di costruzione dello stato nazione italiano. 

Significa rendersi conto che è un’ingenuità credere che la transizione ecologica che si sta imponendo in Sardegna, sia davvero una transizione ecologica, e che sia realmente finalizzata a chiudere con il petrolchimico.
Perché impianti come quello di Sarroch, nati già vecchi, non verranno riconvertiti in nulla. E non verranno chiusi.
Nel 2024 il ministro Pichetto Fratin ha dichiarato: “Chiudiamo tutte le centrali a carbone, tranne in Sardegna.

Se un giorno venissero chiusi, sarà perché non rendono abbastanza. E in ogni caso, chi si occuperà delle operazioni di smantellamento e di bonifica?



Questo racconto di un dove si può concludere solamente se si aggiunge che gli anni dell’industrializzazione dell’Isola, della criminalizzazione della pastorizia, del rafforzamento del razzismo anti-sardo, furono quelli in cui cominciarono anche l’occupazione militare dell’Isola e la turistizzazione, con la nascita del mito della Costa Smeralda.

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Una risposta a “Vivere in Sardegna, vivere in Paradis… Ah, no?”

  1. […] privilegiarono l’industrializzazione. Vennero creati 2 poli, uno a Porto Torres e uno a Sarroch, davanti al nuraghe Antigori e nei pressi di paesi, località balneari e del Parco Naturale […]

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