Gli inganni del turismo esperienziale

I luoghi non sono significativi di per sé, non nascono “a vocazione turistica”, ma lo diventano per la stratificazione di storie, simboli che li caratterizzano e per le trasformazioni prodotte dalle attività umane. Il luogo, la località, il locale hanno un portato di significati sociali, culturali ed economici. Assumono valori molteplici in quanto rappresentano una componente fondamentale della nostra identità, del nostro essere nello spazio e nel tempo, sono spazi di produzione e riproduzione, tuttavia si integrano sempre di più nelle dinamiche globali del mercato. In che modo? Attraverso la loro messa a valore sia come patrimonio e, strettamente legato a questo, nel turismo.
Un sistema economico che vende luoghi, ma soprattutto esperienze, mercificando le pratiche culturali delle comunità locali. Promette al visitatore un contatto “autentico” con le culture locali, ma, non di rado, ciò che viene offerto è nient’altro che una messa in scena dell’autenticità.

In questo processo, le donne anziane occupano una posizione particolarmente vulnerabile: si trovano a essere valorizzate come simboli di autenticità, “depositarie di conoscenze tramandate attraverso generazioni”, e impiegate come produttrici e parte di esperienze.

In questo articolo parlo di come l’industria turistica perpetui forme di estrattivismo nei confronti delle donne in età avanzata.
Mi concentrerò sull’intersezione tra oppressioni di genere, età e classe nel contesto turistico in Sardegna.

Quando l’autenticità diventa un prodotto

Il turismo esperienziale è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni. Non basta più consumare i luoghi: si vuole “vivere come i locali“, “scoprire tradizioni autentiche“, consumare cibi caserecci.
Le donne anziane, in particolare, sono diventate il simbolo dell’esperienza “genuina”.
I loro volti compaiono nelle brochure, nei post e nei video per i social, le loro mani impastano per cooking class da 200 euro a persona, i loro racconti diventano intrattenimento.

Il fatto che l’industria dei viaggi sia considerata per lo più come un volano di sviluppo (e non come pratica dalla matrice coloniale e classista con un potenziale impatto distruttivo) invisibilizza le dinamiche più problematiche.

Alcuni rischi sono:

  •  rinforzare stereotipi, gerarchie e processi di neo-colonialismo culturale
  • auto-esotizzazione: le comunità si presentano secondo l’immagine che i turisti vogliono vedere
  • alterazione delle pratiche sociali e dell’identità culturale, favorendo versioni semplificate e statiche della tradizione.
  • violenza epistemica
  • Trasformazione dell’esperienza autentica in una nuova forma di consumo elitario, accessibile solo a turisti benestanti

Inoltre, il lavoro femminile di cura (socialmente non riconosciuto come tale) si confonde con il lavoro produttivo: i saperi femminili sono considerati come parte della vocazione all’accoglienza e all’accudimento come funzione biologica. Rispetto al lavoro maschile, quello femminile è considerato “naturale”, quindi rischia di essere svalutato.

La violenza epistemica

La violenza epistemica è un concetto sviluppato dalla studiosa Gayatri Spivak per descrivere il processo attraverso cui i saperi di alcuni gruppi vengono cancellati o deformati dai gruppi dominanti. Non è violenza fisica, eppure nega le soggettività, le oggettifica.

Come si può manifestare nel turismo?

  • Le ricette delle “nonnine di paese” diventano “la dieta dei centenari”
  • I rimedi tradizionali sono il segreto (svelato) della longevità
  • Le loro memorie diventano intrattenimento
  • La normalizzazione dell’uso di un linguaggio problematico (vivi come un vero local

Nel momento in cui diventa parte di un “pacchetto”, il contatto con la popolazione locale non è più spontaneo, ma è mediato da logiche economiche.
Il problema non tanto è il fatto in sé, quanto lo spostamento del potere di negoziarle dalle comunità a soggetti intermediari (agenzie, tour operator, aziende, eccetera).

Nonostante l’idea di “scambio”, il turismo esperienziale può essere caratterizzato da asimmetrie.
Capita che le persone turiste abbiano risorse finanziarie esponenzialmente superiori alle comunità che le ospitano: comprano il gusto di provare il costume di una vita diversa, più povera, ma più genuina. Cosa che è divertente perché dura lo spazio di una vacanza o di un retreat.

La foto viene da Unione Sarda

Quando la longevità diventa un brand: la Blue Zone

La durata media della vita si è allungata nel corso dell’ultimo secolo.
La speranza di vita non è uguale ovunque (non è questa la sede per ragionare sulle connessioni tra essa e le disuguaglianze): sta di fatto che la longevità è oggetto di ricerche e studi che mirano a rendere la vecchiaia una fase della vita confortevole da attraversare.
Le Blue Zone si inseriscono esattamente in questo solco; sono aree geografiche circoscritte in cui la longevità ha carattere di eccezionalità.

La Blue Zone sarda è tra le più studiate, anche grazie ad alcune peculiarità come la durata della vita in salute e il rapporto tra la mortalità di uomini e donne oltre i novant’anni.
Va sottolineato che la Sardegna non è un territorio neutro. Il mancato approccio decoloniale alla trattazione delle questioni che riguardano l’Isola fa sì che essa venga intesa come un territorio ai margini dell’Europa secondo gli stereotipi dell’arretratezza, dell’isolamento, del suo carattere selvaggio.
Il marketing turistico delle Blue Zone costruisce una narrazione che presenta lo “stile di vita sardo” (la famigerata vita lenta) come antidoto naturale alla modernità occidentale.

L’alta concentrazione di centenari in alcuni paesi della Sardegna centrale, diventa uno dei tasselli del mito identitario della “vera Sardegna”, l’Isola nell’isola.
La quota di purezza di una popolazione resistente e forte, quindi longeva. Cosa che l’industria turistica ha immediatamente trasformato in opportunità commerciale: la Blue Zone sarda è lo spazio esotico a portata di mano per eccellenza. Oggetto di pacchetti turistici disegnati per un target per lo più americano, sicuramente di lusso: ritiri di benessere che promettono di far vivere come i sardi. Quelli veri.

Ovviamente tutte le problematiche legate alla distanza dalle strutture sanitarie, l’assenza di servizi ambulatoriali e servizi, sono invisibilizzate in questa romanticizzazione della vecchiaia in Sardegna.

Le nonnine di paese tra stereotipi e estrattivismo

Le conoscenze delle donne anziane sfruttate dall’industria turistica includono: saperi culinari; pratiche artigianali; medicina tradizionale; racconti orali, canti; le lingue autoctone.
In un quadro di mercificazione dei saperi e delle pratiche indigene, le donne anziane sono in una posizione di particolare fragilità, in quanto oggetto di discriminazioni legate al genere, all’età (ageismo), di razza e di classe, quando c’è disparità economica tra turisti e comunità ospitante.

Nel marzo del 2024 Alice Orrù ha parlato di gerontologia femminista in Ojalà, la sua newsletter. In un passaggio illuminante, Orrù cita Anna Freixas Farré, scrittrice e ricercatrice spagnola, la quale spiega come esistano diversi modelli di vecchiaia femminile. Nel ragionare sulle parole che si utilizzano per parlare delle donne anziane, Alice Orrù fa riferimento alle etichette tradizionali di “madre”, “moglie”, “nonna”.

In Sardegna si usa il termine tzia per parlare di una signora vecchia anche se non è nella cerchia parentale, alla quale si deve rispetto. Di frequente ci si rivolge a lei con i termini samartzei, fustei, che si usano con le persone con cui non si ha confidenza. Sono parole che denotano riverenza. Il corrispettivo negativo è quello della tziodda, la signora anziana trasandata, in qualche caso bigotta e pettegola.
Tra i diversi modelli di vecchiaia femminile nella declinazione sarda, c’è la signora di Orgosolo: estensione di quella sarda -ma di quella “vera”-, viene oggettificata, resa un’icona, in un immaginario interiorizzato dai sardi stessi. Barrosa, fiera, la donna sarda, se di paese, è anziana, vestita in abiti neri, con su mucadore in testa.
Se giovane, è misteriosa, col broncio, occhi e capelli scuri.

Per capire come la figura femminile sia usata come garanzia di autenticità, basta rievocare certi racconti delle proteste contro la speculazione eolica e fare caso alla strumentalizzazione dell’immagine delle donne di Orgosolo. L’indugiare sull’abbigliamento, sul modo di parlare. Un meccanismo da cui emerge l’ambiguità dei processi di colonizzazione culturale e come si intersechino con gli stereotipi di genere (ben radicati anche nella cultura sarda): ciò che non rientra nei canoni della “civiltà” dominante viene interpretato come segno di genuinità. Al contrario, la stessa differenza può essere percepita come una sorta di messa in scena, oppure come un’eccezione alla regola che mette in dubbio l’autenticità stessa.

Il sistema turistico fagocita e appiattisce, confonde e banalizza il ruolo delle donne nella società: la figura della “nonnina di paese” relega la persona a un ruolo relazionale e sociale ben preciso, estendendolo anche a chi non ha avuto figli.
Sembra ricondurre a quello che quello che Freixas definisce il “mandato della femminilità eterosessuale”l’obbligo per le donne di essere sempre accoglienti e nutrienti.

Le “nonne turistiche” devono incarnare l’idea della vecchietta laboriosa e felice di mettersi al servizio, cosa che perpetua e rafforza gli stereotipi di genere.

Foto da ArtePiù

“Ma io sono contenta, mi sento valorizzata!”

Come si fa a trattare le problematiche delle pratiche turistiche che le coinvolgono senza tralasciare l’esperienza delle donne anziane e senza sostituirsi ad esse?
Nel parlare di giustizia sociale e di etica dello sviluppo occorre sempre partire dall’ascolto delle dirette interessate. La filosofa morale e politica e teorica femminista Serene Khader si muove dal concetto di “preferenze adattive” (adaptive preferences) per indicare le complesse strategie di adattamento alle condizioni svantaggiose in cui le donne vivono, apparentemente accettando forme di oppressione, ma in realtà agendo in modo pragmatico per ottenere qualche vantaggio.

Non un’accettazione passiva, ma di tentativi di resistenza. L’attenzione si dovrebbe concentrare su quanto è diretto l’esercizio del potere di gestione e negoziazione, per riconoscere le soggettività e le capacità di autodeterminazione nelle loro complessità storiche e culturali. 
È altrettanto importante smascherare i falsi miti degli interventi di sviluppo evidenziando come spesso aumentino il carico di lavoro non retribuito delle donne, senza risolvere le cause strutturali delle disuguaglianze.

Decolonizzare il pensiero sulla Sardegna e la pratica turistica

La Regione Sardegna ha recentemente pubblicato il dodicesimo e ultimo bando del “Cartellone delle manifestazioni del turismo esperienziale” finanziato tramite la Legge Regionale 7/1955, con 1,5 milioni di euro disponibili.
Il sito Sardegna Notizie 24 riporta le parole dell’assessore al Turismo Franco Cuccureddu: «È il tassello finale di un percorso ambizioso», ha detto.

Cosa guida questo percorso? Quali principi e quali obiettivi?
È fondamentale per capire e scegliere che tipo di turismo vogliamo integrare nella nostra economia.
Una pianificazione che non tiene conto delle condizioni di disparità che caratterizzano la Sardegna rischia di convogliare risorse e politiche economiche verso una gestione che non tutela l’Isola e le sue comunità dalla monocoltura economica e da nuove forme di estrattivismo e sfruttamento.

Parliamo di un sistema economico in cui convergono interessi che superano quelli delle comunità su cui impatta, le quali, in molti casi, non possono far altro che subirlo.
Lo abbiamo visto nel recente caso dei militari israeliani in vacanza sull’Isola: rispetto alla richiesta di chiudere il volo che collega Olbia e Tel-Aviv, la presidente Alessandra Todde, riporta Ansa, avrebbe dichiarato che la Regione non può fare nulla: lo riporta Sardegna che cambia.
È un fenomeno che non viene sottoposto trasversalmente a una revisione profonda. Sarebbe opportuno iniziare a cambiare approccio, smettere di parlare di turismo solo come un’opportunità, trattandolo per quello che è: un fenomeno che produce inevitabilmente un impatto negativo.

La decolonizzazione del turismo come pratica dovrebbe andare di pari passo con la decostruzione dello sguardo turistico sulla Sardegna, ridotta a spazio dove soddisfare le proprie aspettative verso la peculiarità, il folklore. Uno sguardo non di rado interiorizzato dalle stesse persone sarde, che le oggettifica e le relega a comparse, elemento esotico nel contesto che abitano. Una forma di strumentalizzazione che interessa in maggior misura le categorie più fragili.

Bibliografia essenziale

Spivak, Gayatri. “Can the Subaltern Speak?”
Lugones, María. “Un femminismo decoloniale”
Anzaldúa, Gloria. “Terre di confine/La Frontera”
Khader, Serene J. “Adaptive Preferences and Women’s Empowerment”; “Must Theorising about Adaptive Preferences Deny Women’s Agency?”
Shiva, Vandana. “Biopiracy: The Plunder of Nature and Knowledge”
Caruso, Calogero; Accardi, Giulia; Aiello, Anna; Calabrò Anna; Zarcone, Rosa; Candore Giuseppina “The longevity of blue zones: myth or reality”
Agus, Davide Tesi di Laurea, “Comuni Immortali. La Blue Zone sarda come realtà liminare”
Del Bo’, Carlo “Etica del Turismo”
Urry, John. “The Tourist Gaze”

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