Il turismo di massa impatta negativamente sui luoghi e sulle comunità: le proteste dei residenti sono diventate sempre più frequenti, tanto che non è più possibile ignorarle.
Eliminare gli effetti negativi del turismo non è possibile: si può parlare di come mitigarne le conseguenze, ma per farlo occorrerebbe mettere in discussione le nostre abitudini di consumo e, inoltre, decolonizzare il turismo come pratica. Cosa significa e perché importante?

Il turismo come fenomeno storico: turismo e colonialismo

Il turismo è un fenomeno storico oltre che economico e sociale.
Un fenomeno di origine occidentale, inizialmente riservato alle classi aristocratiche nella forma del Grand Tour, e poi reso accessibile nella modalità di gruppo con i primi viaggi organizzati dalla Thomas Cook & Son.
È una pratica occidentalizzante sia per come trasforma i luoghi, sia per i comportamenti che le persone che viaggiano per piacere interiorizzano e perpetuano.

Si sviluppa nell’Ottocento, secolo della rivoluzione industriale e dell’espansione coloniale, dalla quale il turismo come pratica eredita lo sguardo, fatto di interesse (anche morboso) per l’esotico e di universalizzazione dei concetti di sviluppo, modernità, ricchezza e benessere. Uno sguardo legato all’attitudine al possesso e di una supposta superiorità attribuita alla civiltà europea,(sostenuta dagli studi positivisti).
I danni prodotti dal turismo e la conseguente crescente intolleranza verso i turisti da parte delle comunità residenti stanno suscitando critiche verso il modo in cui noi persone occidentali osserviamo e parliamo delle altre culture e verso le conseguenze dei comportamenti che assumiamo quando viaggiamo
Si rende quindi necessaria la diffusione di una maggiore consapevolezza del fatto che la modalità eurocentrica di visitare l’altro ha un retaggio di matrice coloniale e di quanto questo sia problematico. 

Il “tourist gaze”, lo sguardo turistico

La critica alla pratica turistica analizza il fenomeno da diverse prospettive: una riguarda il cosiddetto “tourist gaze”, lo sguardo turistico.
Cosa è? E che conseguenze ha? È la lente attraverso cui si scoprono le altre culture, uno sguardo di matrice coloniale: una separazione tra turisti e residenti, come il vetro di un acquario, un filtro (fatto spesso di preconcetti, generalizzazioni, aspettative irrealistiche e stereotipi) che ostacola la relazione.
Ecco alcuni esempi di possibili conseguenze:

  • mancanza di riguardo per gli usi e dei costumi locali
  • mancato rispetto della lingua locale (toponomastica, nomi di persone e luoghi storpiati: non  c’è bisogno di tradurre per forza tutto) e della volontà delle popolazioni riguardo a come vogliono essere chiamate e definite; 
  • perpetuazione di stereotipi con cui si appiattiscono le caratteristiche di territori vasti e differenziati;
  • incapacità di svincolarsi dall’eurocentrismo quando si valutano stili e tenori di vita diversi.

Cosa c’entra la Sardegna? 

Gli elementi su cui si fonda lo sguardo turistico sulla Sardegna sono ricorrenti: le caratteristiche dell’Isola, terra selvaggia ed esotica ben si sposavano con gli interessi dei viaggiatori otto-novecenteschi.
L’idea della Sardegna come paradiso incontaminato, fuori dal tempo, terra dalla cultura millenaria e depositaria, nella non definita “zona interna”, di autenticità è frutto di quello sguardo.
Lo sguardo turistico concepisce la Sardegna come spazio dove soddisfare le proprie aspettative verso la peculiarità, il folklore, il paradosso della comodità coniugata con la natura selvaggia.
Anche in Sardegna, a dispetto del luogo comune dell’ospitalità, l’impatto del turismo di massa genera attriti: lo sguardo turistico è una barriera tra turisti e residenti, tra portatori di capitale e portatori di folklore.

È il fattore che oggettifica luoghi (e persone), che rende lo spazio turistico uno spazio di consumo, che fa sentire la popolazione locale quasi estranea, ospite in casa propria (sensazione di essere invasə, di perdere i propri spazi), elemento esotico nel contesto che abitano.
Anche animati dalle migliori intenzioni, spesso i turisti si muovono e parlano della popolazione locale in modo problematico, ma non sempre percepito come tale, dato che parte della popolazione sarda ha finito per interiorizzare quello sguardo.

La decolonizzazione del turismo riguarda solo chi arriva da fuori?

Non di rado i sardi stessi, privati della possibilità di entrare in contatto diretto con la propria storia, con la propria lingua e tradizioni in un contesto italofono e italocentrico, fanno l’esperienza del turista-consumatore, fruendo di un’offerta che spesso è strutturata come un safari di cose e persone sarde. Un’idea veicolata dal marketing turistico che intercetta anche la voglia di risposte, il desiderio di riscoprire le proprie radici da parte delle sarde e dei sardi stessi. 

Perché? Per il fatto che la Sardegna è sconosciuta anche alla maggior parte delle persone che la abitano. È un luogo dove l’immaginario narrativo è a volte più forte della realtà. Dove il concetto stesso di identità è il prodotto non della consapevolezza di sé, ma di una revisione che deriva dallo sguardo esterno.
Non solo “il turista”, quindi, ma anche chi abita la Sardegna può essere destinatariə di una narrazione decoloniale. In cosa consiste? Quali sono le sue caratteristiche?
– La prospettiva interna: da quale punto di vista viene illustrato il contesto? Che parole si usano? Ad esempio, paese invece che borgo per definire un centro abitato di piccole o medie dimensioni. I due termini, sebbene vengano sovrapposti non sono affatto sinonimi.
– Le comunità al centro, relazione: fare un passo indietro, mettere da parte i preconcetti è fondamentale per dare spazio e voce alla cultura locale.
– Narrazione: raccontare i luoghi per quello che sono e non per soddisfare lo sguardo esterno è il presupposto per evitare che la storia venga intesa solo come intrattenimento e la scoperta del territorio come una mera esperienza ricreativa.

Decolonizzare il proprio sguardo porta a fare un passo a lato, ad ascoltare e mettere da parte i propri parametri di modernità, benessere, sviluppo e a diventare parte di uno scambio.

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Una risposta a “Parlare di turismo decoloniale è importante?”

  1. […] ne parla spesso: di solito sono i danesi a farlo e questo per Korneliussen è problematico perché “devi conoscere da dentro una società per poterla raccontare”. Un secolo fa l’antropologo danese Knud Rasmussen descriveva la Groenlandia come una terra dove la […]

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