Verità o stereotipo?
Città del Mediterraneo piuttosto che sarda, portuale, protesa verso l’esterno e con relazioni tutt’altro che semplici con l’interno. Cagliari, “città di fondazione”, descritta come se i fenici avessero iniziato a scrivere su un libro dalle pagine bianche, da tempo immemore sede di governi stranieri. La sua storia può essere sintetizzata con un pratico e agevole elenco di dominazioni che consegna al presente le vicende di un popolo apparentemente incline a farsi conquistare e incapace di ribellarsi.
Cagliari, aundi su casteddaju no s’intedit prus.
Cagliari, la “romantica”, raccontata così bene dai viaggiatori e dagli scrittori.
Cagliari, storicamente abitata da gente straniera, al massimo da persone provenienti da tutta la Sardegna, quindi senza un’identità propria. Città del malaffare. “Svenduta” dai sardi stessi.
Cagliari, caposaldo di poteri parassiti e disinteressati ai veri problemi dell’Isola.
Cagliari, città senza una vera anima, troppo “moderna”, borghese, contrapposta alla “vera Sardegna”, quella depositaria dell’autenticità, l’isola nell’Isola: il mitico, indomito, interno.
Alcune di queste cose le ho pensate e dette anche io. Prima di ripensare il modo di appartenervi, oltre che di leggerla come contesto e di raccontarla.
Comincia così una rubrica su Cagliari, a puntate, per provare a navigare la complessità di una città poliedrica, che è anche multiculturale e meticcia.
Cagliari non è Sardegna, i cagliaritani non sono “veri sardi”: da dove nasce questa narrazione?
La vicinanza col potere
La storia di Cagliari è stata fatta coincidere con quella dei gruppi che l’hanno amministrata.
La lingua straniera con cui la cultura dominante si è espressa è stata vista dalle élite come un mezzo per far parte di un potere che ha squalificato e umiliato la gente che non la parlava. Un popolo escluso dalla narrazione che si è consolidata nel tempo, non necessariamente falsa, ma certamente parziale.
Una compagine popolare spesso raccontata in modo macchiettistico o con un interesse morboso; più come portatrice di folklore che di specificità culturali.
Cagliari può essere intesa anche come un margine, un luogo di confine da narrare secondo prospettive auspicabilmente alternative, per esempio, al come è stata vista dai viaggiatori e dagli scrittori famosi.

La prospettiva esterna
L’autore inglese Charles Edwardes, che visitò la Sardegna nel 1888, scrisse un libro intitolato “La Sardegna e i sardi”, dove su Cagliari si legge: È una città briosa e sotto molti aspetti gradevole: ma non è la Sardegna.
Aggiunge Edwardes più avanti: Le montagne, infine, completano il paesaggio; sono esse che custodiscono i veri Sardi della Sardegna. Nei villaggi racchiusi nei loro grembi, perdurano abitudini di costumi e di vita che appaiono eccentrici a Cagliari come pure a voi o a me.
La “vera Sardegna” viene fatta coincidere con quella delle “zone interne”: è un’idea ancora oggi piuttosto radicata, che contrappone uno (spesso immaginario) stile di vita rappresentato come “ancorato alla tradizione”, ad uno contaminato e corrotto dalla modernità, tipico delle città.
Questa visione colloca la Sardegna lontano non tanto nello spazio geografico, quanto nel tempo. Geograficamente vicina, eppure distante perché remota sotto il profilo temporale, sospesa in una dimensione indefinita.
La rappresentazione dei viaggiatori otto-novecenteschi è condizionata da un’ideologia primitivista, che si fonda, quindi, sull’abitudine a temporalizzare lo spazio e su una mentalità tipica dell’Europa colonialista.
Nessuno degli autori che hanno alimentato le narrazioni della Sardegna come paradiso selvaggio e ancestrale in Europa, sembra sfiorato dal dubbio che la cultura sarda abbia sviluppato forme di resistenza al potere coloniale.
“Lasciata fuori dal tempo e dalla storia”, è con queste parole che lo scrittore e viaggiatore inglese David Herbert Lawrence ha descritto Cagliari un secolo fa.
È il paradosso dell’autenticità, della legittimazione di sé in ragione di ciò che si è stati, della feticizzazione dell’arcaico.
In Sardegna un ruolo importante nel consolidamento di questo immaginario lo ha avuto la teorizzazione -in diversi ambiti, dall’archeologia alla linguistica- dell’esistenza di un territorio refrattario alla conquista e alle contaminazioni, su cui si è costituito il mito del centro dell’Isola come depositario di una cultura ancestrale. Una sorta di archetipo identitario. Eppure è ampiamente riscontrabile come non sia mai esistita un’isola nell’isola: certo, la conformazione geografica ha influito su una caratterizzazione composita delle culture delle varie zone dell’isola, ma più che di chiusura o di separazione sarebbe opportuno parlare di specificità, dal momento che gli scambi ci sono sempre stati.
Il ricordo della “Cagliari che non c’è piu”
Come se il passato fosse qualcosa di scisso dal reale, guardiamo ad esso con un atteggiamento nostalgico che ci fa sottovalutare e spesso svalutare qualsiasi segno del presente.
Si sente spesso dire che Cagliari non è autentica perché non è più come la conoscevano i cagliaritani di Stampace, Lapola, Villanova. Al passato mitizzato si da il nome di “tradizione” che nella percezione comune è un concetto spesso (fra)inteso come statico, congelato nel tempo e quindi implicitamente regressivo, invece che nella sua accezione rigenerativa di continuazione e cambiamento.
Rinunciare a questa prospettiva rigida sulla città consente di leggere il contesto urbano nella sua complessità contemporanea e multiculturale. Ma non solo: permette di calare nel presente il rapporto tra spazio pubblico e società, tra “centro” e “periferia”. E di metterlo in discussione.

Vinti, ma non convinti
L’identità culturale è frutto di un processo dinamico partecipato, basato sulle relazioni e sui significati condivisi. Non esiste un canone di sardità a cui conformarsi: non esiste per le persone, tantomeno esiste per le realtà abitative. Ai luoghi è legata l’identità individuale (seminiamo ricordi, nostalgia, raccogliamo memorie), ma anche quella collettiva (ci riconosciamo appartenenti a un contesto, immaginando un “noi”, un gruppo più esteso con caratteristiche simili).
Cagliari è considerata poco sarda perché chi la abita sembra portato storicamente ad assumere i costumi, la lingua e le regole sociali della cultura dominante. Questo comportamento viene generalmente valutato negativamente.
E se invece fosse una strategia di adattamento? Che nel caso di Cagliari ha implicato (e implica) l’alto prezzo della rinuncia a parte del proprio modo di vivere (pensiamo a chi vi si trasferisce da altre realtà della Sardegna), ma al tempo stesso ha permesso ai suoi abitanti di sopravvivere e di perpetuare la propria cultura.
Se è vero che le dinamiche di occupazione simbolica della cultura si rinnovano con il tempo, è anche vero che i cagliaritani hanno saputo praticare forme di resistenza: per citare per citare Cicitu Masala, is casteddajius funt bintus, ma no cumbintus.
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