Perché ci interessa così tanto lo sguardo altrui?
Stanno accadendo nello stesso periodo dei fatti che riguardano non solo la narrazione sulla Sardegna e le persone sarde, ma soprattutto i significati ad essa attribuiti, l’autorappresentazione, gli attriti con le culture esterne e la difficoltà di rapportarsi al discorso di alterità che caratterizza la Sardegna.
Da un lato c’è la discussione sui Carnevali sardi e in particolare su alcuni aspetti che riguardano gli animali e il dibattito che (semplifico solo per necessità di sintesi) può ricondursi ai filoni animalista e antispecista. Come esempio si può prendere in esame la posizione di Enrico Rizzi.
Dall’altro c’è l’entusiasmo suscitato dall’amore per la Sardegna dichiarato dall’attrice Whoopi Goldberg, intervistata da Jimmy Fallon nella sua trasmissione The Tonight Show lo scorso 6 novembre e recentemente da Geppi Cucciari a Splendida Cornice, programma di Rai 3.
Goldberg diventerà cittadina onoraria di Stintino, il paese da lei scelto per trascorrere lunghi periodi di vacanza.
Non c’è tra questi accadimenti solo una corrispondenza temporale, ma anche narrativa. Per quanto sembrino opposte, sono due visioni che derivano dalla stessa matrice, da inquadrare in un più ampio e unico sistema. Quello dei luoghi comuni che finiscono per diventare un’unica storia sulla Sardegna e chi la abita, ma anche della difficoltà a riconoscere i meccanismi storici, economici e sociali che possono condizionare il modo in cui noi persone sarde vediamo la realtà (vale per le storie di unicità come per quelle squalificanti) e molte delle condizioni in cui viviamo.
Non è tanto importante chi abbia detto cosa, quanto capire da dove derivano certe visioni, perché venga loro attribuita tanta importanza e come mai vengano interiorizzate in modo acritico.
La vergogna innescata dal giudizio negativo
Il filo conduttore tra queste due situazioni è che a parlare sono figure esterne – più o meno note – che esprimono un’opinione sulla Sardegna e sulle persone sarde basandosi su una conoscenza quanto meno parziale del contesto.Il che sarebbe anche legittimo di per sé, volendo. Chiunque è liberə di dire ciò che crede sulla Sardegna. Ciò che invece merita analisi sono, da un lato, il significato più largo e generalizzante attribuito a queste dichiarazioni e le reazioni che suscitano: vergogna e orgoglio, due facce della stessa medaglia.
Prendiamo ad esempio l’affermazione riportata da La Nuova Sardegna, in cui Rizzi usa termini come «oscenità e barbarie» per parlare del carnevale di Ovodda e di Sedilo, aggiungendo che «una parte della Sardegna è rimasta indietro». Quello che emerge è una visione primitivista della Sardegna, realtà poco conosciuta a chi la abita, figuriamoci a chi ne sta fuori.
È un’idea longeva di stampo colonialista e razzista che si rintraccia nei resoconti di viaggio otto e novecenteschi e che si può seguire attraverso i secoli fino ad oggi.
Quando gli usi e costumi sardi fuoriescono dallo spazio in cui sono legittimati, ovvero non corrispondono più alle aspettative esterne di osservare qualcosa di “esotico” (non per distanza geografica ma perché rimanda all’arcaicità), vengono rigettati, stigmatizzati.
Una sorta di tratto “primitivo-negativo” esteso a un’intera cultura, giudicata negativamente perché non conforme agli standard di progresso stabiliti da chi detiene un potere economico e politico, e parla per una presunta superiorità.
Capire la cornice contestuale non interessa. I sardi sono solo un oggetto narrativo: questo giudizio induce alla vergogna, legata agli autopregiudizi, alle storie squalificanti che servono a spiegare la subalternità. Ciò accade perché non c’è un’ampia conoscenza del contesto anche interna e quindi se accadono certe cose -se la Sardegna è povera, marginale, eccetera- non può che essere colpa dei sardi o di un’arretratezza innata.
Rizzi dice: “Da un punto di vista civile, invece, ritengo che sia una vergogna che nel 2025 si debbano vedere queste immagini. Per me tutto questo è violenza, e lo dicono anche tantissimi sardi che mi hanno scritto per dirmi che sono mortificati e non si rispecchiano in queste manifestazioni”.
Qual è il meccanismo da indagare?
Alcune persone sarde non sanno tantissimo su di sé, non sanno come spiegare certe cose, interiorizzano il giudizio esterno, generalizzante e banalizzante, lo fanno proprio e lo ripetono senza ragionarci troppo.
Attenzione: questo non significa che siccome “è tradizione” allora vale tutto.
Altre reazioni alle polemiche sui carnevali sono: la difesa acritica di qualsiasi cosa si intenda per tradizione; il rifiuto di qualsiasi istanza contraria.
Anche questa è sostituzione di ciò che dovrebbe essere identitario con il tipico.
Le culture non sono impermeabili, entrano in contatto con elementi esterni, li rielaborano, talvolta integrandoli: il gruppo sociale rinegozia internamente i suoi valori. E cambia. In sostanza, se proprio bisogna discutere su cosa è accettabile o no, lo si dovrebbe fare per spinta endogena, perché ci si fa domande e si cercano collettivamente delle risposte che vadano bene per più o meno tuttə, e non per ingerenze o imposizioni calate dall’alto, perché ci si vergogna o per aderire a modelli esterni.
La gratificazione per la validazione esterna: l’altro lato della medaglia
Anche l’immaginario restituito dalle parole di Whoopi Goldberg appartiene a una visione primitivista. Simile a quella che riguarda le culture percepite come esotiche da quelle occidentali (la stessa che porta a definire “povere ma felici” alcune popolazioni asiatiche ad esempio, basandosi sull’universalizzazione dei concetti di ricchezza e benessere con un ragionamento assolutista e non relativista).
Qual è la matrice di questo sguardo?
Il mito del buon selvaggio di Rousseau a cui si lega un atteggiamento benevolo e paternalista che idealizza la popolazione indigena, intesa come moralmente “integra” perché non ancora corrotta dalla modernità.
Un tratto che potremmo stavolta definire come primitivo-positivo connesso alla corrispondenza tra una natura paradisiaca e selvaggia, spesso ostile, e uno stile di vita non moderno, arcaico, quindi depositario di autenticità e genuinità. Attributi associati molto spesso al cibo, ma anche a una sorta di ingenua spensieratezza (l’assenza di preoccupazioni di cui parla Goldberg, “I sardi, a differenza degli americani, «non hanno troppe stron…e a cui pensare, come da noi. Noi americani siamo stressati, al punto che la gente cammina sempre arrabbiata, addirittura tenendo le mani sempre chiuse”) e a un ritmo di vita lento, qualsiasi cosa voglia dire.
[Ecco perché gli autoctoni sono forti e sani e vivono a lungo (il mito dei centenari sardi).]
Questa visione gratifica perché conferma gli stereotipi della Sardegna come paradiso e terra incontaminata, selvaggia, ma ospitale. Dà un senso di conforto anche perché taglia fuori dalla narrazione, per esempio, l’inquinamento prodotto da attività militari e industriali che rende ampie aree della Sardegna non bonificabili, o l’alto tasso di suicidi, o lo spopolamento cronico che affligge l’Isola. (Altro che popolazione spensierata).
Suscita un orgoglio anch’esso derivante da una scarsa conoscenza del contesto e dal desiderio di conformarsi alle aspettative esterne. Le storie di specialità sono quelle dove le “tradizioni” vengono legittimate e “valorizzate”. Afferma la sindaca di Stintino: “La testimonianza positiva di una figura internazionale come Whoopi Goldberg è un esempio di come la condivisione e l’ospitalità possano tracciare un ponte solido tra le persone, le culture e le tradizioni”. Questo senso di gratitudine viene anche istituzionalizzato con il conferimento della cittadinanza onoraria: che, si legge nell’articolo de La Nuova Sardegna, “darà un grande contributo alla crescita della popolarità di Stintino nel mondo”.
Smontare gli stereotipi, una lotta sociale
L’orgoglio e la vergogna hanno in comune l’essere suscitati da uno sguardo ‘altro’ e il replicare, sia nei contenuti che nella matrice, stereotipi e generalizzazioni.
Anche se in contraddizione tra loro, possono convivere nello stesso spazio simbolico, geografico e personale perché sono visioni che semplificano, confermano, confortano o fanno indignare per gli stessi motivi. E rappresentano, a mio parere, l’occasione mancata per includere nel dibattito pubblico il discorso di alterità che riguarda la Sardegna, sul quale si potrebbe basare molto di più che uno scontro di opinioni a volte fine a se stesso.
Chiunque è libero di rigettare parte della propria cultura, o di distaccarsene del tutto, sia chiaro. Qui non si parla di scelte personali o di pareri individuali, ma di farsi o meno portatori acritici di una visione parziale, negativa o positiva che sia.
Quello che sarebbe importante è essere consapevoli di chi si è, ma soprattutto sarebbe dirimente conoscere il complesso di ragioni storiche, antropologiche, economiche, sociali che possono influire sulla nostra visione della realtà.
Tornare a essere comunità narrante non può che avere come radice e forza di propulsione il recupero e la riappropriazione degli elementi che compongono le culture della Sardegna (a partire dalle lingue). Ciò implicherebbe anche sottoporre a revisione critica i valori comuni senza necessariamente tradire la propria identità, e senza, quindi, squalificare le lotte che (solo apparentemente) non rientrano in quella per il riconoscimento del diritto a esistere, ad autodeterminarsi, e a non essere discriminati in quanto sardi.
In questo modo forse la volontà di essere riconosciuti esternamente diverrebbe qualcosa di meno banale del prestigio derivante dalla concessione della cittadinanza onoraria a un’attrice famosa.
«La gregarietà – come scriveva Barthes (Il luogo comune, 1979, oggi in Barthes 1998) – non è mai innocente perché è facilmente manipolata. Allontanare le ripetizioni [dei luoghi comuni], osservarle, demistificarle è dunque una forma di lotta sociale».
“Semiotica della cultura” Anna Maria Longo
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