Sull’Isola esiste un immaginario ben consolidato, fatto per lo più di stereotipi e luoghi comuni. Tra questi c’è la narrazione sulle dominazioni che il popolo sardo avrebbe subito nei secoli.
La storia della Sardegna viene spesso riassunta con un elenco di dominazioni, senza dedicare al tema sufficienti riflessioni.
Di solito la lista inizia con i Fenici: parlare di dominazione fenicia è improprio per diverse ragioni, intanto perché i Fenici, intesi come un unico popolo, non sono mai esistiti.
Si trattava di un gruppo di città dislocate in un territorio corrispondente grosso modo all’attuale Libano, che si spinsero in Occidente per finalità commerciali, più che imperialistiche. Il termine “colonizzazione” in riferimento ai Fenici non va assimilato al fenomeno del colonialismo storico in senso stretto.
I Fenici stabilivano basi commerciali in giro per il Mediterraneo, ed è ovvio che la Sardegna fosse interessata dal fenomeno. Una delle città più importanti dei cosiddetti Fenici era Tiro, la quale aveva uno scalo rilevante nell’attuale Golfo di Tunisi. Questo scalo crebbe così tanto da diventare una città: Cartagine.
Cartagine divenne una città-stato a capo di un piccolo impero, che nel VI secolo ha inglobato anche la parte sud-ovest della Sardegna. Ci fu un fenomeno di integrazione, al punto che la popolazione sardo-punica combatté contro i Romani.
L’età romana
Come molti altri territori, anche la Sardegna entrò a far parte dei possedimenti di Roma: nel corso del tempo ci furono conflitti e il grado di controllo da parte di Roma sull’isola non fu omogeneo. Ciò non significa che il processo di acculturazione denominato “romanizzazione” non abbia interessato tutta la Sardegna, comprese le aree più refrattarie alla sottomissione dove i segni del contatto con la cultura romana furono profondissimi, a partire dalla lingua.
Scrive l’archeologo Roberto Sirigu:
“Quando parliamo di romanizzazione, facciamo riferimento, è opportuno ricordarlo, a un caso particolare di un evento culturale di portata più generale che risponde al nome di acculturazione. Con questo termine si designano quelle forme di mutamento culturale dovute al contatto tra due o più gruppi che, a volte (raramente, in verità) presentano un andamento unidirezionale (cioè solo uno dei gruppi influenza l’altro o gli altri coinvolti nel processo), ma, più frequentemente, assumono carattere di reciprocità (ovvero tutti i gruppi coinvolti si influenzano reciprocamente, anche se in misura differente).”
Quella romana fu, dunque, a tutti gli effetti, una dominazione.
Vandali, bizantini e Giudicati
La parentesi vandala assunse inequivocabilmente i caratteri di un dominio fiscale, ma più su una parte dell’isola che su tutto il territorio. A questa fase seguì la restaurazione del potere bizantino, con un andamento non proprio lineare.
Sia il periodo vandalo che quello bizantino sono poco conosciuti ed è un peccato, perché in realtà sono molto interessanti! L’arrivo di importanti esponenti della cristianità in esilio, per esempio, pose la Sardegna al centro di un movimento culturale internazionale.
Il periodo giudicale è curiosamente descritto come la conseguenza di un periodo di “abbandono” della Sardegna da parte dei Bizantini. Si parla poi di “dominio” di Pisa e Genova. In sostanza, la storiografia è solita relegare la Sardegna dei secoli XI-XIII a regione subalterna delle Repubbliche Marinare italiane.
Viene tralasciato che le due città fossero in guerra tra di loro, cosa che mette in dubbio che esistessero i presupposti per una coesistenza di due dominazioni.
In Sardegna la storia dei Giudicati proseguì a lungo: la stessa Corona d’Aragona dovette combattere una lunga e sanguinosa guerra contro il Regno d’Arborea, conclusasi nel Quattrocento, per annettere la Sardegna.
Fasi aragonese e spagnola
Le fasi catalano-aragonese e castigliana sono trattate come un blocco unico e come una sorta di intermezzo, (di cui si parla poco e negativamente) che ha interrotto temporaneamente le relazioni tra la Sardegna e i territori della futura Italia (giova ricordare che l’Italia non esisteva ancora come soggetto politico unitario e così sarà fino al 1861).
La lista dei dominatori finisce con i Savoia, sotto i quali si compì l’italianizzazione dell’Isola.
Questa visione, oltre a essere strumentale alla legittimazione storica di un legame tra la Sardegna e l’Italia (e di una visione essenzialista dell’identità sarda), tralascia i rapporti profondi tra la Sardegna e il resto del Mediterraneo, spostandone pretestuosamente il baricentro a Occidente. E soprattutto menziona il popolo sardo solo come subalterno e incline alla sottomissione.
“Se la nostra appartenenza all’Italia non è descrivibile come una dominazione, perché le altre sì?”
— Omar Onnis
Colonialismo
Anche di colonialismo si parla a volte senza avere piena consapevolezza di ciò che significa, o per replicare il discorso sulle “dominazioni” o per smentirlo, affermando che la Sardegna “non è mai stata colonizzata” da nessuno: “i sardi sono sempre stati sardi”, negando commistioni e scambi e creando il mito di un’isola nell’Isola.
La Sardegna non è mai stata formalmente una colonia, eppure il suo è un ruolo che si può definire subalterno nella relazione con lo Stato di cui fa parte.
Il processo di costituzione dello Stato-nazione si è basato, in Italia, sulla costruzione di una forte identità nazionale, ovvero sulla diffusione pervasiva (quando non sull’imposizione) di modelli culturali e linguistici diversi da quelli autoctoni. Questi ultimi sono stati squalificati e ridotti a un livello inferiore rispetto a quelli dominanti (ad esempio con il declassamento della lingua sarda a dialetto o con la legittimazione della sardità solo come portatrice di folklore per poi stigmatizzarla quando fuoriesce dai limiti definiti dalla cultura dominante).
Questi discorsi riflettono, almeno in parte, le teorie sul colonialismo interno, che differisce dal colonialismo storico perché si verifica all’interno dei confini di un medesimo Stato.
Colonialismo interno
Parlare di colonialismo interno implica superare la concezione del colonialismo come pratica di conquista, sottomissione e sfruttamento, e individuare dinamiche durature e insite nel sistema sociale, economico, culturale: meccanismi di dominio che attraversano la società, fino a diventare un condizionamento psicologico.
Cosa significa?
Che il colonialismo interno:
- oppone un centro a una periferia: il centro (fautore del progresso e depositario di valori di civiltà) sfrutta le risorse (naturali, economiche, ma anche umane) della periferia (dove la tradizione diventa sinonimo di pratiche barbare e di inciviltà) per sviluppare la propria economia. La condizione di povertà di una parte del territorio è necessaria e funzionale alla prosperità di un’altra.
- sceglie i governanti tra i suoi membri o tra una compagine locale affine;
- impone la sua lingua e la sua cultura come ufficiali e portatrici di progresso, etichettando le parlate autoctone come dialetti e le culture locali come “barbare” o arretrate;
- elabora e diffonde stereotipi sulla “natura” delinquenziale, pigra, rozza delle popolazioni subalterne e sulla loro incapacità di autodeterminarsi, come se fossero dei minori non in grado di badare a sé;
- fa largo uso di pratiche clientelari per perpetuare dinamiche di controllo (è il caso delle figure locali in vista che, in cambio di favori e vantaggi, direzionano i voti delle comunità verso candidati selezionati dalle segreterie con sede nel continente, che non sanno nulla delle realtà che intendono governare), e di imposizione delle decisioni prese altrove.

Tra le teorie più interessanti sul colonialismo interno ci sono quelle di Silvia Rivera Cusicanqui, sociologa, storica e attivista femminista boliviana.
La foto viene da Wikipedia.
Una delle leve più importanti atte a giustificare le relazioni di disparità tra territori è l’opposizione tra concetti come sviluppo e sottosviluppo, modernità e arretratezza, che però sono elaborazioni culturali, costrutti inventati che spesso si intendono come universali e oggettivi, ma che non lo sono. Può capitare che siano parte integrante dei processi di democratizzazione delle società e non di rado si realizzano attraverso la subordinazione di altre culture.
Il colonialismo interno non riguarderebbe, quindi, solo l’economia, ma è soprattutto una forma di dominio che influenza ogni aspetto della vita collettiva, dalla politica ai comportamenti sociali, fino alla psicologia degli individui.
Si può parlare di disciplinamento sociale riferendosi all’idea del cittadino-modello in base alla quale si normalizza la discriminazione della parte di popolazione che rifiuta alcuni aspetti della cultura dominante (fino a giudicarla inferiore).
Per essere legittimati come cittadini, bisogna parlare e comportarsi come italiani.
Non a caso capita che ai sardi venga intimato di parlare correttamente in italiano (esiste la variante positiva di questo aspetto, presentata come un complimento: i sardi parlano un italiano corretto, che bravi!) e di adeguarsi ai dettami morali e valoriali dello stato.
In nome dell’avanzamento socio-culturale (conformarsi ad essa), inoltre, si spezzano i legami comunitari della società autoctona promuovendo l’individualismo.
In questo caso, il colonialismo non è interno solo perché avviene entro i confini di uno stesso territorio statale, ma anche perché è un fenomeno psicologico, è interno agli individui.
Le persone lo assimilano e lo riproducono, anche inconsciamente. È una forma di dominio che si manifesta anche nelle relazioni intermedie, come una catena di oppressioni; può esistere anche se non è formalmente riconosciuto. È veicolato anche dalle élite e dalle classi dirigenti locali, interessate a far parte delle dinamiche di potere e ad esercitarlo, anche se sono spesso marginali nel sistema statale.
Le obiezioni:
- Il colonialismo in Europa non esiste.
Il colonialismo storico fu un’iniziativa degli Stati-nazione europei: perché avrebbero dovuto farne una pratica da applicare solo all’esterno dei loro confini? Se il colonialismo implica l’assoggettamento politico ed economico, la sua mentalità coloniale è un sistema di potere più ampio e duraturo; - Il colonialismo si basa sull’invenzione dell’inferiorità di alcuni popoli, civiltà, culture su base etnica: in Italia non esiste una differenziazione etnica, quindi le disparità interne all’Italia sono da spiegare secondo una prospettiva territoriale e non coloniale.
Le popolazioni meridionali italiane e quella sarda sono state oggetto di studi pseudoscientifici atti a dimostrare (anche con la misurazione del cranio, o con l’analisi dello sguardo e dell’espressione facciale, nonché dei tratti somatici) un’inclinazione naturale, biologica a delinquere. Sono stati dunque usati dei metodi razzializzanti per sancirne l’inferiorità e per giustificare misure repressive o economiche (nel caso della Sardegna con l’obiettivo di depotenziare la pastorizia per eliminare il banditismo). Ne parla Andrìa Pili in un articolo intitolato “L’invenzione del pastore nella razzializzazione dei sardi”, pubblicato sul sito di Filosofia de Logu.
Le discriminazioni su base etnica vengono elaborate per giustificare la prevalenza di un soggetto su un altro. Sono funzionali a creare un sistema gerarchico in cui la cultura dominante è più evoluta e starebbe compiendo una missione civilizzatrice a favore di quelle rimaste indietro, attraverso l’imposizione di modi di vivere e modelli produttivi estranei al contesto. Questo discorso è assimilato anche dai popoli subalterni.
Il colonialismo non ha avuto le stesse caratteristiche ovunque sia stato imposto: l’opportunità di parlare di colonialismo interno non dovrebbe essere vista come sminuente rispetto alle lotte dei popoli colonizzati e razzializzati, ma come una possibilità di creare alleanze nel contrasto alle oppressioni e alla marginalizzazione delle minoranze.
Così come la colonialità è un insieme di metodi e pratiche, la decolonialità fornisce strumenti teorici e pratici di rivendicazione e decostruzione.
L’indipendenza è garanzia di liberazione sostanziale? Secondo alcuni studi decoloniali, non necessariamente: cambiando le relazioni di potere senza trasformare le relazioni col potere si rischia di replicare le stesse pratiche dell’oppressore.
Di questo argomento ho parlato in un articolo pubblicato da S’Indipendente.
Fonti:
Katjuscia Mattu, Colonialismo interno in Italia: tra ricerca scientifiche e prospettive politiche
Andrìa Pili, L’invenzione del pastore nella razzializzazione dei sardi
Omar Onnis, Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso
Rachele Borghi, Decolonialità e privilegio
Filosofia de Logu, entrambi i volumi
Roberto Sirigu, la Sardegna Romana in Archeo, Anno XXVIII numero 7
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