Giaime Corongiu sostiene il colloquio dell’esame di maturità in lingua sarda. Una cosa che dovrebbe essere ordinaria in un contesto bilingue, qui in Sardegna è argomento da articoli sul giornale (senza nulla voler togliere al merito del ragazzo, sia ben chiaro: la questione è un’altra.)

La scuola italiana in Sardegna

Nonostante esistano gli strumenti di legge e le prove scientifiche dei benefici del bilinguismo (per restare in Sardegna c’è anche l’esempio dell’istituto onnicomprensivo di Perfugas che usa la lingua autoctona come lingua veicolare) la scuola sarda è italofona, italocentrica ed eurocentrica.
Cioè si limita ad alfabetizzare e socializzare persone italiane in Sardegna. La scarsa coscienza di sé, la negazione del diritto a pensare la realtà nelle lingue autoctone portano a delle conseguenze deleterie, come l’abbandono scolastico e rendimenti non ottimali. O anche l’incapacità di raccontarsi a se stessi e agli altri; di spiegare e spiegarsi le ragioni reali del conflitto con la propria identità, in quanto persone sarde. Eppure ad oggi, invece che interrogarsi sul perché gli studenti sardi sembrino andare peggio degli altri, sui giornali si parla dell’eccezione che conferma la regola.

Questa incapacità di raccontarsi produce effetti concreti nelle scelte di vita delle persone sarde, che però tendono a spiegarsi con narrazioni semplicistiche.
Si è capaci di usare tutta la propria creatività per fabbricare storytelling polarizzati e polarizzanti, perfetti per i social: la formula delle due strade, delle due alternative.
Il risultato di quella negazione identitaria è che ci troviamo a ragionare per schemi binari: andarsene, restare; tornare; tornare, ma a certe condizioni. A non essere in pace con noi stessi e con chi ci pone di fronte alle alternative. Il senso di colpa, il giudizio per chi va e anche per chi rientra.

Ci facciamo bastare formule preconfezionate, ben narrate. Ci facciamo bastare riconoscere pezzi della nostra esperienza nel racconto di qualcun altro che ci sembra aver capito tutto, piuttosto che acquisire gli strumenti per indagare, per conto nostro, la complessità del reale.
Diamo pure la colpa alla Sardegna per come è: “gabbia dorata”, “che dà e che toglie”, ci raccontiamo le mancanze di alternative, della vita priva di prospettive di chi ci ha preceduto, proiettando sul passato, e sul popolo sardo, il senso d’inferiorità e l’idea di arretratezza che abbiamo interiorizzato.

La Sardegna esiste solo in quanto conforme a ciò che di essa si conosce

La conoscenza della Sardegna (come appartenente storicamente e culturalmente all’Italia) nasce da una posizione di potere.
Per i sardi (e non solo) la Sardegna è ciò che l’Italia governa: da qui nascono le nozioni e l’immaginario che la riguardano. Un sistema di rappresentazioni che descrivono la Sardegna e chi la abita con delle categorie, con un’atmosfera. Un sistema che include le idee che la spiegano anche ai sardi attribuendo loro caratteristiche culturali, un’eredità storica, una mentalità.
Che per noi persone sarde diventano ruoli da interpretare, d’altronde sono le poche cose che sappiamo di noi stesse).

Cose che permettono di parlare della Sardegna come di “una bolla”, una specie di fenomeno.
Per avvalorare questo sistema serve il coinvolgimento di figure percepite come autorevoli (storici, accademici, intellettuali sia sardi che non – i vari Cazzullo e Barbero).

Per inciso: la storia non è una scienza esatta, è frutto di interpretazioni, è una narrazione e questo vale per ogni resoconto che ne deriva, ma una cosa è certa: non è la ricerca, la selezione di elementi a ritroso per confermare una tesi.

Subalternità, stereotipi, dipendenza dall’esterno

Non studiare la questione sarda, non parlare della subalternità della Sardegna, impedisce di affrontare le ragioni del conflitto identitario che proviamo.

E la ragione principale, a mio parere, è che è più facile negare che alla base di quel sistema di nozioni sulla Sardegna, i sardi e il loro mondo, c’è un’idea della superiorità dell’Italia e dell’Europa e una supposta inferiorità della nostra cultura.

“In Sardegna non c’è niente”; è abitata da persone “testarde, disunite, incapaci di fare impresa”, incapaci di… Autodeterminarsi.
L’italianità è la base della civiltà moderna.
Abbiamo “bisogno” dell’intervento esterno: è bastato farci accettare i nostri limiti. Convincerci che fosse meglio incarnare una condizione più vantaggiosa (almeno apparentemente), anche se subalterna.

Il discorso sull’alterità che ci riguarda non può assumere derive identitarie, sia mai!
Ai sardi la parola non deve essere ceduta: possono interpretare il proprio ruolo entro i margini e le costrizioni del linguaggio. Quell’alterità va addomesticata, gestita. Confluisce in una narrazione squalificante o nel suo corrispettivo esaltante.
Il divario tra Sardegna e Italia è dissimulato con discorsi sulla cultura millenaria e ancestrale, sull’autenticità e la genuinità, ma quello sardo è comunque considerato un popolo arretrato e sottosviluppato.

Il sistema culturale stratificato in cui cresciamo, che ci abitua all’autopregiudizio e che spesso ci separa da chi potremmo liberamente essere (ciò che non si può dire non si può pensare, e pertanto non esiste), è fatto affinché Giaime Corongiu sia una mosca bianca, una storia di specialità di cui andare fieri.
Qualcuno ha anche scritto, sulla discussione del diploma in lingua sarda, “il coraggio di pensare in sardo”. Il coraggio.

Solo chi si fa dire da altri, che non sa prendere parola può farsi andar bene di accettare che si dica che per parlare, pensare, sognare, essere, nella propria lingua, serve un atto di coraggio, invece di pretendere che diventi un diritto per chiunque.

Però, oh, la Sardegna è un paradiso!

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