
Fonte immagine Roma cinema fest
C’è grande attesa per l’uscita del film “La vita va così” di Riccardo Milani, basato sulla vicenda di Ovidio Marras, proprietario di un terreno con un insediamento rurale nella zona della spiaggia di Tuerredda. Marras si era opposto all’occupazione di uno stradello da parte della Sitas (una società che fa capo a costruttori come Gaetano Caltagirone, Claudio Toti e i Benetton) per la costruzione di un albergo di lusso. La vicenda giudiziaria si risolse a favore di Marras, il quale assurse agli onori delle cronache diventando un “simbolo”.
E questo, mi viene da pensare, non è sempre un bene perché rischia di annacquare e distorcere le storie, che finiscono quasi per essere svuotate del loro senso.
Per un quadro più completo consiglio la lettura dell’articolo di Alessandra Saiu per S’Indipendente e le considerazioni che Andrìa Pili ha pubblicato sui suoi canali social.
Di questa storia ci interessa davvero la verità?
Un articolo sulla presentazione di alcune immagini del film al Giffoni Film Festival riporta le affermazioni del regista Riccardo Milani il quale dichiara, testualmente: “L’Italia è un Paese che amo, ma che mi fa anche arrabbiare”, fa riferimento all’importanza di “alzare la testa” e dichiara: “lo sguardo sul mondo per me è indispensabile”.
Non posso che essere d’accordo e infatti è proprio questa prospettiva a essere legittimamente oggetto di critica. Milani, nella stessa intervista dice:
“Ho conosciuto questa storia vera nel 2012. È il racconto di un uomo e di una comunità che si spacca tra la necessità di creare posti di lavoro e il rispetto del territorio. Io cerco di raccontare sempre storie che parlano di umanità. Tante realtà del nostro Paese vivono un conflitto. (…) Dovremmo indignarci tutti di più di fronte a delle brutture”.
Trovo molto interessante questo passaggio: Milani ha una predilezione per “le storie vere”. Ed è da qui che vorrei partire perché a me è venuto da chiedermi se al pubblico, alla gente (questo è un film confezionato per il mercato cinematografico italiano), a noi sarde e sardi, di tutta questa storia, interessa o ci è mai interessata davvero la verità?
Sono andata a ritroso per leggere cosa di Marras veniva detto e scritto, per vedere come la sua immagine veniva veicolata, come la sua scelta veniva commentata. E mi sono domandata quando questa storia abbia smesso di essere vera.
Marras era già stato fagocitato dai meccanismi di stampo coloniale da una parte, e essenzialista dall’altra, che hanno mitizzato la figura del pastore sardo. Era già stato proiettato sul filone della lotta impari, trasfigurato in uno degli epici “Davide contro Golia”.
Non che ci sia di per sé qualcosa di male in questo, sia chiaro. Mi sembra, però, che questa sublimazione abbia l’effetto di oscurare certi aspetti, come ad esempio il carattere anticapitalista e anticolonialista dell’accaduto.
Quella di Ovidio Marras è lotta di classe contro l’arroganza e l’usurpazione, contro l’estrattivismo spacciato per sviluppo. Contro il ricatto dei posti di lavoro che costa alla Sardegna inquinamento industriale, occupazione militare, danni da un turismo fuori scala e non lungimirante. Non è la storiella romantica di un’azione straordinaria quanto velleitaria portata avanti da un signore anziano, semplice e ingenuo, pagu bessiu, ma saggio e tutte le caratteristiche che gli sono state cucite addosso, con un atteggiamento marcatamente classista.
Questo è uno degli aspetti da cui mi sembra che questa storia venga epurata, seppellito dall’esaltazione della figura dell’eroe solitario, che -cito da un pezzo de La Nuova Sardegna- “era finito anche sulle pagine del New York Times per non essersi piegato alla modernità.” Un’edulcorazione necessaria per rendere del tutto innocuo il racconto, spoliticizzandolo.
Già da prima che Milani iniziasse a pensare di raccontare la sua storia, questa era già distorta dall’ottica del potere. Marras, che non si era piegato alla modernità, era già finito nel tritacarne della subalterna lettura resistenziale della storia e della cultura sarde. La sua storia non era più vera da un pezzo.
Liberazione delle classi subalterne e anticapitalismo non possono, a piacimento, essere sconnessi tra loro e visti fuori dal quadro politico, economico e sociale in cui si verificano.
lo ho l’impressione che la vicenda di Marras fosse stata già universalizzata, fatta aderire a un archetipo letterario. E sradicata dalla relazione di colonialismo interno tra stato italiano e Sardegna in cui andrebbe situata.
Lo sguardo coloniale
È vero, il film non è ancora uscito, ma la prospettiva che l’ha concepito è deviata in partenza. Il punto di vista di cui Milani parla e quello del pubblico destinato a “consumarla” coincidono nel potere che rappresentano nella società. Come è accaduto spesso (almeno dall’Ottocento) la verità di chi gestisce la narrazione conta più della realtà stessa.
Nonostante le intenzioni del regista (che è inconsapevole come tante e tanti, anche tra i più progressisti, del carattere orientalista e classista dell’immaginario sulla Sardegna), quello che questi tentativi di documentare la realtà fanno, è restituire all’esterno il fascino, il gusto (a tratti morboso) per il primitivo e per il selvaggio. Incontrano, e allo stesso tempo incarnano, l’approccio paternalista portatore di civiltà.
In questa prospettiva risulta chiaro il perché, per interpretare Ovidio Marras sia stato scelto Giuseppe Ignazio Loi, un “vero pastore”, descritto come ambasciatore della bellezza della Sardegna come crocevia di popoli, a cavallo tra Oriente e Occidente. La definizione è dello stilista Antonio Marras.
Lo stereotipo del pastore

Fonte immagini: Pagina Instagram di Radio Sintony
Quella che riguarda Loi è una narrazione nella narrazione: non è solo un interprete nel film, ma è il personaggio del “pastore sardo” nella vita reale. Corrisponde all’estetica del pastore stereotipato, fuori dal tempo. Barba ispida, anziano, copricapo. Non importano le reali ragioni, della vita vera di questa persona non frega niente a nessuno: ciò su cui ci si sofferma è che non è mai salito su un aereo e che non andava al mare da 50 anni.
È l’emblema del pastore sardo che conduce uno stile di vita “arcaico”, quindi non è corrotto dalla modernità (lontano dalle città e dalla Sardegna del mare, della costa, percepita come meno autentica rispetto alla Sardegna selvaggia e incontaminata dell’interno).
Loi viene portato a Milano (per eccellenza il centro, il luogo dove succedono le cose che contano, di Milano gli piace tutto, ci tengono a farci sapere). Un viaggio nella terra promessa perché, insomma, sarà anche il simbolo della bellezza della cultura sarda e della sua ancestralità, ma qualcuno dovrebbe dargli l’occasione di uscire dalla sua condizione, secondo la logica classista, primitivista e razzista del progresso. La quale, sotto sotto, lo percepisce come un poveraccio “da salvare”.
Viene esibito come un accessorio in sfilate di moda e ritratto mentre Diego Abatantuono gli tiene la faccia per il mento.
È la prova in carne e ossa del fatto che la Sardegna autentica resistente alla modernità esiste, tant’è che ci si può andare pure in vacanza, per provare la vita semplice, fingendosi più poveri, living like a sardinian, cosa che piace e intrattiene perché è temporanea.
È un elemento di prestigio ed è così perché sta nei i limiti entro cui la cultura dominante legittima la sardità. Che deve essere innocua, deve intrattenere, deve essere abbastanza esotica. Deve essere addomesticata, secondo le norme del disciplinamento culturale (colonialità dell’essere), fuori dalle quali viene tacciata di essere arretrata e, qualche volta, barbara.
È vero, il film non lo abbiamo ancora visto, ma quello che sappiamo sembra essere abbastanza per immaginare che una parte del pubblico che consumerà questo prodotto, oggi si commuove guardando bonariamente questo anziano signore che va per la prima volta a Milano e al mare dopo 50 anni, e ieri accusava il popolo sardo di sindrome di NIMBY per la sua lotta contro la speculazione energetica. Un sentimento in continuità con i rimproveri rivolti a suo tempo a Ovidio Marras (oggi eroe mitizzato) che stava impedendo la creazione di chissà quanti posti di lavoro.
Concludo dicendo che per rendersi conto e parlare di queste problematiche non serve essere persone sardofone: l’italianità non impedisce di per sé di analizzare criticamente il modo in cui la Sardegna viene rappresentata. La decolonizzazione culturale non avviene necessariamente attraverso la negazione o il ripudio di tutto ciò che ha, o pare avere, connessioni con la cultura dominante. A partire dalla lingua con cui si veicola: l’italofonia non è un ostacolo a sentirsi sardi e al legame emotivo con lingue autoctone dell’Isola (un dato che emerge ne “Le Lingue dei sardi, una ricerca sociolinguistica”, l’indagine più compiuta e recente condotta dalle università di Cagliari e Sassari dalla Regione Sardegna, come parte dell’attività della “Commissione tecnica –scientifica sullo stato delle lingue della Sardegna”).
Non serve essere persone sardofone (molte di noi il sardo non hanno mai scelto di non impararlo) per essere abbastanza sarde e per “alzare la testa” quando una storia di anticapitalismo e resistenza viene edulcorata e finisce per fare essa stessa quello che si proponeva di denunciare. Diventando, cioè, l’ennesima forma di estrattivismo e sfruttamento.
Lo sguardo sul mondo per me è indispensabile.
Dovremmo alzare la testa.
Dovremmo indignarci tutti di più di fronte a delle brutture.
Ha ragione Riccardo Milani, non abituiamoci alle brutture. Indigniamoci.
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