Luoghi comuni: la Sardegna dovrebbe vivere di turismo
Quante volte capita di sentir dire questa frase? Seguita magari da esempi di posti nel mondo dove sono stati più abili a capitalizzare in senso turistico il territorio, l’arte, la cultura locale.
La narrazione diffusa è che il turismo sia un volano di sviluppo: così viene raccontato da rappresentanti delle istituzioni, locali e dello stato, ovviamente da tutti i portatori di interesse del settore direttamente e indirettamente connessi al turismo (dall’ambito della ricettività all’edilizia). Ne scaturisce una visione eccessivamente ottimistica che trascura gli effetti negativi come le criticità nella gestione degli affitti brevi, fenomeno che, in molti casi, costringe i residenti ad abbandonare i luoghi turistizzati.

Foto di Marcello Migliosi
Le problematiche sono numerose, eppure il turismo è un’industria la cui crescita sembra inarrestabile, incoraggiata dai soggetti promotori, anche a livello istituzionale. Perché, nonostante la consapevolezza diffusa rispetto ai danni dell’overtourism, si continua a parlarne come di un volano di sviluppo?
E soprattutto perché si ignorano gli esempi virtuosi di integrazione del turismo nella vita delle comunità? A fare la differenza è proprio il ruolo delle comunità: quando sono coinvolte e messe al centro, quando sono i residenti a fissare i limiti, gli non solo gli effetti del turismo sono mitigati, ma la ricaduta è caratterizzata da volumi magari moderati, ma continuativi e maggiormente distribuiti. Esistono casi (con meno appeal mediatico) che dimostrano che il turismo può essere una delle attività economiche praticate in un territorio, senza necessariamente prevalere o snaturare le vocazioni o l’aspetto dei luoghi.
Si tratta di un modello di “sviluppo moderato”, in cui la crescita non è prioritaria rispetto alla tutela del territorio e delle risorse, giacché la comunità è coinvolta in tutte le fasi.
Tale idea si contrappone a quella della crescita inarrestabile e dei grandi numeri, all’idea di sviluppo e progresso tipica dell’Occidente nell’era dei consumi di massa e globali, in cui il guadagno è possibile in virtù delle disparità. In tale modello, nelle realtà subalterne, la gestione e le mansioni più specializzate e remunerate sono privatizzate ed esternalizzate, mentre la popolazione locale ha un ruolo subordinato.
Il turismo come brand
Un Paese famoso per essere una destinazione ambita beneficia della ricaduta positiva in termini di reputazione a seconda della tipologia di turismo che vi si pratica (culturale, naturalistico, balneare e così via). Le località turistiche molto frequentate sono sicure, accoglienti, paradisiache. Devono costruire e difendere un immaginario affinché sempre più persone, o una certa tipologia di target, siano indotte a recarvisi.
In sostanza, affinché un territorio diventi destinazione occorre il riconoscimento da parte di un adeguato numero di persone disposto a visitare quella determinata area geografica.
Creare un’offerta turistica rispondendo a bisogni sempre più specifici e competere sul mercato globale sono pratiche finalizzate alla crescita economica, che fanno leva sui numeri in crescita del fenomeno turistico.
Va tuttavia ricordato che la percentuale di persone che si muovono dal luogo in cui vivono per svago è estremamente bassa: chi si può permettere di viaggiare e praticare il turismo abita nei Paesi più ricchi e costituisce una minoranza della popolazione mondiale.
Il desiderio di spostarsi è considerato connaturato alla natura umana: il Codice Mondiale di etica del turismo riconosce il “diritto al turismo e alla libertà di spostamento per motivi turistici”, in un mondo in cui lo spostamento motivato da costrizioni o persecuzioni non solo non è considerato un diritto, ma è spesso criminalizzato.
Le critiche verso il turismo
Il turismo è un fenomeno soggetto a critiche dovute al fatto che è responsabile di un impatto negativo sui territori e sulle comunità ospitanti.
La crisi del settore causata dalla pandemia ha evidenziato la fragilità dei sistemi economici troppo dipendenti dal turismo, ma questo non ha determinato un’inversione di tendenza. Nemmeno il fatto che nel corso degli ultimi anni siano costantemente aumentate le proteste dei residenti in località dove il turismo è da anni un pilastro dell’economia, come la Catalogna, sembra aver suscitato riflessioni in merito.
E in Sardegna?
Nel giugno del 2024 l’assessore al turismo della Sardegna Franco Cuccureddu ha affermato «non siamo una regione turistica» e «non si produce ricchezza, troppa stagionalità».
Il tipo di turismo più praticato in Sardegna è, infatti, ancora quello balneare (fonte: piano strategico regionale 2023-2025) con una concentrazione dei flussi nelle stesse località, sottoposte a una pressione insostenibile (dato che si somma agli effetti del cambiamento climatico e della carenza di risorse vitali come quella idrica).
Al centro dei piani strategici istituzionali ci sono alcuni temi ricorrenti come la destagionalizzazione, la sostenibilità, lo sviluppo di nuove tipologie di turismo.
Secondo l’assessore Cuccureddu la soluzione per la Sardegna sarebbe : “Introdurre altri elementi motivazionali, per incidere su altre nicchie. Mi riferisco al folclore, all’enogastronomia, all’archeologia e via dicendo. Ma non puoi proporre il Carnevale di Mamoiada a un turista del nord Europa come evento singolo, devi costruire un pacchetto più completo e appetibile. Devi incuriosire il turista dicendogli che accanto al carnevale troverà questo itinerario enogastronomico, che potrà visitare questo paesaggio suggestivo, che ci sarà un albergo che gli riserverà un’offerta speciale. Insomma, per far sì che a febbraio qualcuno sia disposto a viaggiare per l’isola, dovrà percepire la qualità del prodotto che andrà ad acquistare”.
La Sardegna è un luogo a vocazione turistica?
La Sardegna non è un luogo a vocazione turistica, per quanto ne parli la letteratura di viaggio già dal XVIII secolo. Le ragioni fondamentali sono: il sistema economico che si fondava su un’economia di tipo agricolo e pastorale e la malaria, debellata negli anni 50 del Novecento.
La turistizzazione della Sardegna è da ricondurre alle trasformazioni che hanno portato all’invenzione della Costa Smeralda, a partire dagli anni 50 del Novecento (il debellamento della malaria contribuì significativamente). I terreni dei Monti di Mola, in Gallura, avevano un valore medio-basso dato proprio dal fatto che la popolazione residente praticava altre attività economiche: ciò ha consentito ai ricchi imprenditori non sardi di garantirsi ottimi investimenti. Il fenomeno ha sconvolto il contesto perché il turismo è un’attività non solo diversa ma in contrasto con l’ambiente socioculturale.
Nonostante l’inarrestabile crescita del turismo come fenomeno economico e di massa, la ricaduta economica reale sul territorio sardo continua a essere limitata
Chi può dire di vivere davvero di turismo?
La creazione di posti di lavoro è rimasta esigua in Sardegna, lo ha detto lo stesso assessore Cuccureddu nella stessa intervista:
«Le difficoltà emergono nel tasso di occupazione delle strutture, al di fuori della parentesi estiva. La stagionalità è troppo marcata: un turismo che funziona non può reggersi esclusivamente su tre settimane all’anno, cioè quelle che vanno da fine luglio a metà agosto. Tutto questo diventa insostenibile».
L’incidenza sul PIL sardo del turismo è ancora all’8%, quindi anche la crescita delle entrate pubbliche sembra non essere cresciuta nel tempo.
La ricchezza prodotta dal turismo, quindi, si concentra su una minima parte dei soggetti coinvolti.
Nei contesti economicamente svantaggiati i benefici economici ricadono quasi sempre fuori dalle comunità interessate creando l’illusione del valore salvifico dei flussi turistici, intesi come vettori di ricchezza.
Ciò a cui si assiste è la privatizzazione dei profitti (che ricadono su pochi soggetti), ma collettivizzazione degli effetti negativi:
-danni ambientali
-rarefazione delle risorse
-inquinamento
-peggioramento delle condizioni di vita della popolazione locale
-condizioni inique per i lavoratori del settore per mantenere i costi bassi.
L’inganno del turismo sostenibile
L’idea seducente che sostenibilità e sviluppo possano integrarsi con la possibilità di una continua crescita economica si basa su concezioni di sostenibilità e di benessere sociale ritenute universali, sebbene né l’idea di sostenibilità, né quella di sviluppo siano intese ovunque allo stesso modo.
Svuotata dal suo significato anche la sostenibilità è entrata nel mercato come un criterio per il rebranding in ambito turistico.
Parlare di etica del turismo e di sostenibilità non basterà a mitigarne gli effetti negativi finché non verranno in discussione gli schemi culturali del turismo “tradizionale”.
Resteranno discorsi vuoti finché non verrà evidenziato seriamente:
– il fatto che il turismo sia una pratica “occidentalizzata” e occidentalizzante;
– la correlazione tra turismo e colonialismo (anche quello interno);- la problematicità dell’intendere il turista solo come un consumatore e un portatore di ricchezza e/o salvezza da soddisfare
Come si possono distribuire in tutto l’anno i flussi turistici senza il superamento del sistema che contrappone lavoro e ferie di matrice Ottocentesca, a cui è strettamente legata la stagionalità?
Quali cambiamenti?
Solo una concezione sistemica potrebbe produrre cambiamenti: occorre studiare strategie per mitigare l’impatto del turismo, smettendo di mettere le ragioni turistiche al di sopra di ogni altra cosa.
È necessario concepire le prestazioni turistiche a partire dal rispetto del contesto, e non dalla necessità di soddisfare le aspettative esterne, lavorando al consolidamento, alla ricostruzione e alla tutela degli equilibri relazionali interni alle comunità. Parlare di responsabilità in ambito turistico ha senso solo se si considerano prioritarie le esigenze e i diritti delle comunità residenti (e resistenti!), le più titolate a sancire i limiti.
Cosa vorrebbe dire quindi “vivere di turismo”?
Contribuirebbe a diversificare le attività degli abitanti (e quindi le loro fonti di reddito)?
O si sommerebbe a pratiche economicamente poco redditizie, aumentando di fatto il grado di dipendenza verso l’esterno?


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